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venerdì, giugno 30, 2006

Escursione 29 giugno 06: Monte Terminillo (2210mt)!




Il monte Terminillo è il monte dove i romani le domeniche invernali vanno a sciare. Ci sono altri monti ma, il Monte Terminillo, è stato il primo, rimane abbastanza vicino a Roma, e così è molto frequentato in inverno ed in estate
La partenza degli amici romani è sempre di tutto comodo per dei montanari (appuntamento alle 7,30, partenza non prima delle 8!).
Questa mattina ho capito il vero motivo della caduta dell’Impero Romano: l’orario della sveglia mattutina! I barbari, uomini rudi, abituati alla vita dura, la mattina erano fin dalle prime ore sul campo di battaglia.
I romani, tra la sveglia tarda, il cappuccino ed il cornetto, qualche altra operazione personale…, il traffico del raccordo e delle vie consolari…. sul campo de battaglia ma quando ce arrivavano?
Beh! Lasciamo stare la storia antica, veniamo ai giorni nostri, ovvero all’escursione.
Il programma di Dono è sempre adatto a tutti i piedi!
Ed infatti questa escursione prevedeva l’arrivo al rifugio Sebastiani in macchina e poi, da li, in vetta. Per chi desiderava altra camminata in cresta ed altri sentieri.
Eravamo 15, tutti giovani, molto giovani, ad eccezione di tre che hanno superato i cinquanta…non diciamo di quanto, basti pensare che uno dei tre è andato in pensione da pochi giorni.(beato lui)
Dopo un viaggio abbastanza tranquillo arriviamo a lato del rifugio Sebastiani ci prepariamo velocemente e, all’alba (si fa per dire) delle ore 10 riusciamo a partire!
Il tempo è coperto e ventoso! Meno male…se ci fosse stato il sole dei giorni scorsi...!
La salita è subito ripida e qui incomincia a vedersi la differenza tra chi ce la fa, e chi arranca.Il nostro capo gruppo (Dono) dispensa consigli in particolare ai principianti: piccoli passi, lenti e regolari. Il gruppetto inevitabilmente si allunga e, tra i primi e gli ultimi beh, un bel po’ di vuoto.
Il vento è fastidioso, però pazienza, anche lui deve fare il suo lavoro: in fondo siamo noi che saliamo sui monti dove il vento è di “casa” e può fare come vuole! Di fronte a questa considerazione mi metto tranquillo e sopporto tutto, anche il sudore asciugato con il vento: come se dice a Roma “una mano santa per la mia bronchite”!
Alcuni giovani davanti, noi tre “vecchietti” al centro altri in fondo.
Oggi c’è Pino un profondo conoscitore di tutte le specie di fiori e vegetazione che incontriamo. Fotografa tutto e tutto descrive con dovizia di particolari. C’è anche Giancarlo che non è da meno: un cuore contadino…donato alla chimica (professore di chimica), che ammira le genzianelle le violette, si vede che si sente a proprio agio in questo ambiente.
Nel salire non si parla molto perché si cerca di risparmiare il fiato!
Alcuni dei partecipanti con scarpette inadatte alla montagna fanno un po’ di fatica!
Dopo poco meno di 1,5 ore siamo in vetta(2210mt.)….di già? Un po’ deluso della piccola scarpinata, anche se è stata quasi tutta in salita volentieri siedo a riposare ( i miei polmoni non sono ancora del tutto liberi), cercando di mettermi in una posizione riparata dal vento.
Come qualcuno asserisce, la bellezza delle escursioni è riposare sulla vetta in compagnia di cose buone da mangiare, l’importante è aver camminato, poco o tanto poco importa. Dieci minuti dopo arrivano anche i ritardatari!
Si sta bene in vetta, anche se la foschia non permette di godere del bellissimo panorama che da lassù è possibile godere.
I più esperti indicano in direzione del Gran Sasso e di altri monti! Bisogna fidasse…tanto nun se vede niente!!
Dopo poco iniziano le prime proposte: andiamo in cresta più avanti? Ritorniamo per un altro sentiero? Arriviamo sino all’altro rifugio? Osservare i volti delle persone dopo ogni proposta dava l’indice dell’affaticamento e della volontà di ciascuno. Come capita in ogni gruppo democratico: chi vuole andare va, chi vuole restare resta…..e quello è!
Io, manco a dirlo, mi metto con il gruppo dei “annamo avanti a vedè che c’è”! Lo spirito Colombiano (Crtistoforo intendo) alberga dentro di versi e così si parte.
Un prima parte in cresta con un vento che aumenta sempre di più sino a farci barcollare. Poi finalmente si inizia a scendere.
Abbiamo perso di vista chi stava dietro di noi, telefoniamo e ci confermano che sono tornati indietro: troppo difficoltoso per qualcuno.
Noi rimasti in pochi, anche una giovane e coraggiosa ragazza, decidiamo di affrontare un sentiero di ritorno diverso da quello fatto. Ce lo propone Donato grande conoscitore di questei monti. L’unica incognita: alcuni lastroni di neve da attraversare senza essere ben attrezzati!
Mentre scendiamo il vento ci lascia al nostro destino e soprattutto ci lascia con il caldo che lui aveva cercato di allontanare.
Valli a capì ‘sti uomini, nu glie va bene proprio niente!
Si chiacchiera allegramente, si scherza con questi giovani di montagna poco esperti ma a fantasia dei professionisti!
In ogni spedizione un capo ci vuole sempre ed allora nominiamo nostro capo e guida :Donato (Beh, l’unico che conosceva il sentiero visto che Dono si è sacrificato con il gruppo che è rimasto in cima. Donato, detto il saggio (lo dico perché un po’ conosco la “testa “ che ha).
Inizialmente le difficoltà non sono molte!
Poi di fronte a noi ecco che dobbiamo attraversare un lungo lastrone di neve ghiacciata.
Qualcuno più esperto, con attenzione, va avanti e cerca di creare delle impronte profonde dove gli altri dietro possono mettere il piede in sicurezza.
L a nostra intrepida Maria G., con le scarpette da ginnastica (turista fai da te!!) non se la sente di rischiare! Effettivamente c’è serio pericolo di scivolare fino in basso tra le rocce. Decidiamo con il capo che io e lei aggiriamo l’ostacolo: scendere in basso di diversi metri dove la neve si assottiglia e poi risalire. Facile a dirsi, difficile a farsi perché scendere nel ghiaione , con le scarpette da ginnastica presenta qualche difficoltà, ed d infatti qualche piccolo taglietto alle caviglie se le procura. Lentamente, e non senza qualche difficoltà, dovute allo scivolamento dei piedi sui sassi appena apoggiati riusciamo a scendere mentre gli altri aspettavano in alto dopo aver attraversato il lastrone. Poi la risalita non facile neanch’essa. Lentamente, quasi a quattro zampe, con la forza di volontà MG ed io riusciamo a riguadagnare il gruppo.
Medichiamo con un fazzoletto bagnato le piccole escoriazioni alle caviglie, ma MG è tenace e subito riprende il cammino, che per fortuna continua in piano.
Un ultimo strappo ci costringe ad un ultima salita e poi da li la meravigliosa visione del rifugio da dove siamo partiti.
Dopo poco ecco il rifugio…non era un miraggio!!
Ce l’avevamo fatta!

La meraviglia quando non abbiamo visto l’altro gruppo: bene se la sono presa comodo!!
Pensavamo di trovare già l’altro gruppo che aveva scelto di rimanere in vetta e poi ridiscendere per lo stesso sentiero.
Ci sistemiamo fuori dal rifugio e finalmente possiamo riposare e rifocillarci!
Dopo poco scendono gli altri e così il gruppo si riunisce festosamente!
Qualche bevanda di “sostengo”, loro avevano mangiato in vetta: caffé, birra!
Poi la foto di gruppo con l’autoscatto!

Anche oggi il variegato gruppo di “domenicacondomenico” ha vissuto un’altra giornata tra i monti, in amicizia, gioia dello stare insieme, con semplicità ed accoglienza dei nuovi amici venuti per la prima volta.

Ciao.
berardo

lunedì, giugno 19, 2006

La gemma dell'Himalaya


La gemma dell'Himalaya
Everest
di Paolo Crepaz

Thuji chey, Chomolungma. Ti sono riconoscente, Everest. Così Tenzing Sherpa espresse i suoi sentimenti di fronte alla "montagna che nessun uccello può sorvolare".
Raffiche di vento gelido, appena mitigate dal caldo sole di mezzogiorno, sferzano lo sperone di roccia del Khala Pattar, facendo sventolare senza sosta la corona di bandiere della preghiera e di kata, le sciarpe votive di seta che lo avvolgono.
Questa montagna nera, 5.600 metri di quota, considerata qui poco più che una collina, è la più straordinaria terrazza sull'Everest che esista, la meta del nostro e di centinaia di altri trekking che ogni hanno animano la valle del Khumbu. In quei pochi metri quadrati ci stringiamo la mano, ci scambiamo pacche sulle spalle, qualcuno si lascia andare ad un abbraccio.
Poi cominciamo a guardarci attorno.
Davanti ai nostri occhi increduli, che stropicciamo non solo per vincere l'appannamento dello sforzo immane compiuto per salire quassù dove l'ossigeno si è fatto così raro, lo spettacolo è incredibile: per 360 gradi l'orizzonte è disegnato solo da vette, grandi e piccole, avvolte di neve immacolata, colonne d'avorio dell'immenso cielo azzurro. Il profilo candido delle cime rende ancora più incombente l'impressionante triangolo nero dell'Everest che domina la scena, con quel pennacchio di neve, sollevata dal vento, che ne smussa la sommità. Improvvisamente si risvegliano nella memoria i racconti di tante spedizioni, letti al caldo del caminetto di casa, e, con lo sguardo, ripercorriamo, affascinati, ogni segmento della cresta: dapprima quella di Nord-Est, dove perirono, nella prima vera sfida all'Everest, Mallory ed Irvine, l'8 giugno del '24; poi il Colle Sud, 7934 metri, la sella incuneata fra il Lhotse, silenziosa ancella del tetto del mondo e l'Everest, ormai sede abituale del campo IV, quello dell'attacco alla vetta; la cima sud e, poco sopra, l'insidioso, stretto e verticale Hillary Step, a meno di un'ora dalla cima, che miete ogni anno le sue vittime; e poi la sommità, la meta sognata, il terzo polo del pianeta, 40- 50 gradi sotto zero, "da cui puoi vedere quanto sia enorme il mondo e quanto ci sia ancora da vedere e imparare" come disse Norgay a suo figlio.
Ai suoi piedi il ghiacciaio del Cwm occidentale con i suoi seracchi imponenti, nuovi ogni giorno e sempre più larghi per lo scioglimento del ghiaccio. Quale un sontuoso velo bianco da sposa, la sua scia di ghiaccio svolta improvvisamente, lì, 400 metri sotto di noi, dove normalmente si impianta il Campo Base, allungandosi per quasi 5 chilometri in una sorta di oceano di onde gelate, alte fino a 20 metri, spruzzate da sciami di pietre cadute dalle cime vicine. Il Pumori, 7.165 metri, l'enorme pandoro zuccherato che sfida il cielo alla nostra sinistra è la regina delle sentinelle dell'Everest: a destra l'orizzonte è segnato dal Mehra Peak, il Lobuche, l'Ama Dablam, il Thamserku, e via all'infinito, fin dove arriva lo sguar- do, con una selva di 6.000 che non hanno neppure un nome per la loro" modestia.
La luminosità quassù è straordinaria: l'aria, purissima e rarefatta, non pone filtri. Scattiamo foto senza sosta, affascinati dallo spettacolo, desiderosi di fissare per sempre quei momenti, bramosi di catturare immagini da mostrare agli amici. Non c'è né tempo, né voglia di mangiare qualcosa che sia più di una caramella. Già, le caramelle. Nel suo racconto Tenzing Norgay, lo sherpa che conquistò la vetta con Hillary nel '53, scrisse: "Sulla cima seppellii nella neve il gatto (un pupazzo nero di pezza, il portafortuna di Hillary, n.d.r.), il mozzicone di matita (quella della scuola, rossa e blu, datagli dalla figlia, n.d.r.) e le caramelle. A casa - pensai - offriamo caramelle a chi ci è più vicino e più caro. L'Everest mi è sempre stato molto caro ed ora mi è anche vicino.
Mentre ricoprivo le offerte, recitai in silenzio una preghiera. Ed elevai i miei ringraziamenti. Sette volte ero venuto alla montagna dei miei sogni, e questa volta, la settima, con l'aiuto di Dio, il sogno si era avverato" Thuji chey, Chomolungma. Ti sono riconoscente, Everest".
Solo molto più tardi, Tenzing Norgay, si sarebbe reso conto del vero significato di quella impresa. Per lui, piccino, nato in minuscolo villaggio sotto il tetto del mondo, la salita all'Everest, "la montagna che nessun uccello può sorvolare", era stato il sogno che non lo lasciava mai: il racconto dei "chilina-nga", "gli uomini che vengono da lontano" per scalarla, lo affascinò a tal punto da fuggire di casa, a 18 anni, per raggiungere a piedi Darjeeling, la cittadina indiana, che nemmeno sapeva quanto fosse lontana, dove gli inglesi organizzavano le spedizioni ed assoldavano gli sherpa. Per anni i genitori lo credettero morto. Nel'35, a ventuno anni, riuscì a far parte, per la prima volta, di una spedizione all'Everest. Ma solo nel '53, dopo essersi conquistato sulle montagne il prestigioso titolo di "Tigre delle nevi", fu prescelto per il tentativo di scalare la vetta in coppia con Hillary. Gli altri sherpa non compresero perché ci tenesse tanto: "È assurdo pensare che un portatore possa conquistare l'Everest. Finirai per ucciderti e, se invece ci riuscirai, noi resteremo senza lavoro". Temevano infatti che, conquistato l'Everest, non ci sarebbero più state spedizioni.
Ma Tenzing conosceva meglio di loro i chilina-nga: "Se l'Everest verrà conquistato - profetizzò -, l'Himalaya diventerà famoso in tutto il mondo. Ci saranno altre spedizioni, ci sarà più lavoro che mai".
Il fatto di sentirci oggetto di quella profezia ci riempie d'orgoglio, ma più che mai quassù proviamo riconoscenza verso le guide sherpa ed i portatori che ci hanno accompagnati e che, in disparte, ci stanno osservando divertiti. "Quanto manca al Campo Base dell'Everest?" avevamo voluto stampare, quasi per scaramanzia, sulla maglietta azzurra della spedizione.
Ma non sapevamo che la risposta degli sherpa ai trekker che risalgono la valle del Khumbu sarebbe stata: "Calcolato in tempo sherpa o in tempo occidentale?" La loro forza fisica ci ha stupiti dal primo giorno: 40-50 chili ciascuno sulle spalle, tende, tavoli e sedie, cibo, pentole, le nostre pesanti sacche. Ma piano piano, ci hanno mostrato soprattutto la loro forza morale, la laboriosità instancabile, la fedele dedizione al compito assunto di accompagnarci, ma anche la loro semplice, ma profonda religiosità.
In un momento di confidenza ci hanno comunicato di aver pregato assieme, buddisti ed induisti, per la buona riuscita del nostro trekking. "Gli sherpa del maestoso Himalaya sono persone straordinarie - ha scritto Hillary -. Sorprendentemente forti e robusti, in grado di svolgere un lavoro incredibilmente efficace ad alta quota (") buddhisti devoti, con salde e radicate credenze culturali (") mi colpì il loro eccezionale senso dell'umorismo, il forte spirito comunitario, con il loro carattere gioviale e gradevole si rivelarono eccellenti compagni di spedizione".
Ammirato e riconoscente, dal '53 Hillary non hai mai smesso di spendere energie e proventi per permettere agli sherpa di continuare a vivere nel severo ambiente del Khumbu: ha fatto costruire ponti sospesi, un'ospedale, un ambulatorio odontoiatrico, due piste d'atterraggio, una scuola primaria ed una secondaria a Khumjung, la cui prima campanella fu una bombola vuota d'ossigeno. Da quelle aule sono usciti ragazzi come Ang Zangbu, oggi pilota di Boeing, o Lhakpa Norbu, laureato a Seattle. "Se si offre loro una opportunità - ha testimoniato Hillary -, c'è ben poco che gli sherpa non riescano a fare. Il piccolo popolo delle zone selvagge e remote dell'Himalaya si è dimostrato capace di affrontare non solo le quote più estreme, il regno dell'aria rarefatta, ma anche molte delle sfide del mondo occidentale".
Prima di salire quassù, avevamo sostato, in rispettoso silenzio, nella spianata, a 4.800 metri, che ricorda gli sherpa caduti sull'Everest: la prima neve, caduta nei giorni scorsi, copriva in parte i semplici cumuli di pietre che ricordano ognuno dei 46 sherpa che vi hanno perso la vita. Ciascuno evoca una storia, una spedizione, una disgrazia, anche se molti dei loro nomi sono sconosciuti al grande popolo degli alpinisti: come Pasang Lhamu, l'unica donna sherpa vittima dell'Everest, dopo averlo conquistato nel '93; o come Babu Chiri Tshering, padre di sei bambine, precipitato in un crepaccio nel 2001, all'undicesima ascensione alla vetta, primo a scalarla due volte consecutive, a 15 giorni di distanza, dopo essere stato l'unico uomo capace di rimanere 21 ore in una tenda sulla sua sommità, dopo aver compiuto la scalata dal Campo Base alla vetta in meno di 17 ore; o come Galay Sherpa, che scelse di restare fino alla morte accanto a Willy Merkl, capospedizione tedesco nel '34, tremendamente sofferente, piuttosto che lasciarlo solo sulla montagna.
Mescolati tra loro sono ricordati alcuni alpinisti occidentali, primo fra tutti Scott Fisher, sfortunato protagonista del libro Aria sottile, capostipite delle tante vittime della sconsi- derata avventura rappresentata dalle spedizioni commerciali all'Everest. Gli sherpa che ci accompagnano si considerano fortunati di potersi guadagnare da vivere senza rischiare la vita.
"Ho scalato l'Everest perché non lo dovessi fare tu" tentò di spiegare, severo, Tenzing Norgay al proprio figlio, respingendo con forza la sua intenzione di emularlo, ma invano. Da ragazzo il piccolo Jamling aveva sentito raccontare decine e decine di volte l'impresa di suo padre, ed ogni volta cresceva sempre più in lui il desiderio di eguagliarlo.
Certamente il fardello del cognome Tenzing non gli fu mai leggero, né lo fu accettare un padre sempre assente che girava il mondo.
"Ma c'era qualcos'altro a trascinarmi - scrive nella sua biografia -. Dovevo capire cosa aveva spinto mio padre e che cosa poi lui avesse trovato sulla montagna. Solo allora sarei stato capace di recuperare ogni frammento della sua vita, quei frammenti sui quali da ragazzino amavo fantasticare". In realtà trovò, scalando con successo l'Everest nel '96, una dimensione più intima di sé stesso ed il senso del divino che aveva mosso suo padre e che lui aveva perso da tempo.
E noi? Negli undici giorni che abbiamo camminato nella valle del Khumbu, per lunghe ore al giorno, in un saliscendi infinito, più volte ci siamo chiesti cosa ha spinto e spinge tanta gente a desiderare, più d'ogni altra cosa al mondo, di salire quella vetta o raggiungere almeno Khala Pattar. Semplicemente "perché è là" rispose Mallory. Banale, ma forse illuminante.
O forse non c'è nulla di meglio per sintetizzare quell'irrequieta ricerca del "vano" e, al tempo stesso, del "tutto" che spinge uomini e donne, ed ha spinto noi, a sfidare ghiacci, rocce, altitudine, se stessi.

Hotel 1000 stelle


Natura amica
Hotel 1000 stelle
di Donato Chiampi

Una notte a tremila metri contemplando il firmamento.
Agosto, siamo ospiti da un amico in Val Badia. Mariangelo: "Buona giornata (pausa).
Dove andate?".
Domenico: "Oggi niente scalate, nel pomeriggio saliamo al Sass d'la Crusc, dormiamo lassù, all'aperto".
Mariangelo: "Aaaaah (pausa). Andate all'Hotel 1000 stelle!".
Qualunque sia l'estrazione, gli ascendenti diretti o laterali, sotto sotto, piacciono a tutti le esperienze un po' snob. Alcuni fortunati già si accontentano di avere un'erre che nasce dal profondo della gola. Se ci capita di alloggiare in un hotel a 5 stelle, con distacco e qualche critica lo diciamo a chicchessia.
Il fatto che con Daniele e Domenico abbiamo dormito ad un "1000 stelle" vale un articolo.
L'appuntamento con Daniele è alle 18; perciò, nel pomeriggio, decidiamo di passare a salutare due sorelle, nostre carissime amiche. Le abbiamo trovate nel prato davanti alla ciasa. Che sorpresa trovare Maria con le scarpe con i tacchi! Come passa il tempo" ha però conservato il suo bel visetto tondo.
Alle 18 siamo da Daniele.
Guardiamo il cielo, limpido: "Andiamo!".
Daniele è reduce da un ottimo piazzamento in una gara di Ironman in Carinzia.
Per capirsi: tre gare (Triathlon) da disputarsi una di seguito all'altra. Tre chilometri e ottocento metri a nuoto in un lago, 180 chilometri in bicicletta ed una maratona, 42 chilometri e 195 metri. Tutto d'un fiato. Niente male. Del buon Daniele, a questo punto, dire che è allenato è minimizzare. Ci siamo così divorati la salita in un paio d'ore. Tralasciamo i nostri dati sul battito cardiaco e la respirazione.
Giunti in cima ci accoglie un camoscio che, per nulla intimorito, condividerà la "stanza" con noi. Daniele con premura allerta Domenico che nella notte gli avrebbe potuto brucare barba e baffi.
Cena degna dell'hotel.
Un salto sull'ampio terrazzo da dove vediamo accendersi le luci in fondo valle. "Poverini, laggiù così ammucchiati!
" commentiamo.
Il sacco a pelo viene steso tra densi pulvini di silene, varie specie di saxifraghe, genzianelle, campanelle, stelle alpine" erbetta. Naturalmente niente a che vedere con la moquette artificiale degli hotel a 5 stelle. Mentre iniziano ad accendersi le 1000 stelle, a turno ci scappa: "Che silenzio!
". Ma nel dirlo già ci pentiamo. C'è pure qualche stella cadente, saranno le prove generali per la notte di San Lorenzo? Vediamo dei lampi in lontananza, e se piove?
Silenzio. Non lo diciamo con la voce.
Ad un tratto mi viene in mente il mio amico Pasquale che proprio qualche mese fa mi ha raccontato che da giovane andò con i partigiani e, dovendo fare la guardia di notte, osservando il cielo, iniziò a recitare il rosario. Lo capisco.
Mi appisolo, ma all'improvviso spalanco gli occhi, e mi ritrovo in un prato a 2700 metri, avvolto da un'infinità di stelle e due amici vicino, forse svegli pure loro, che sento respirare in un silenzio reale e magico.
Vediamo sorgere il sole (Galileo, continua a perdonarci) e con profonda gratitudine per l'Albergatore ci alziamo.
La colazione "all'altezza" dell'hotel: una barretta condivisa più alcuni biscotti più acqua e limone. Decidiamo di sgranchirci le gambe salendo al Piza dales Diesc, m 3023. Incontriamo subito delle giarines de munt, così le classifica Daniele in ladino. Galline di montagna: mai viste, è strano, dopo anni in Dolomiti. Probabilmente, grazie al caos dei turisti, di giorno non si lasciano vedere. Dopo qualche indagine, nei giorni successivi, ho realizzato che forse erano pernici nel piumaggio estivo.
Nel tragitto verso il Piza dales Diesc, ripensando alla notte, ritrovando l'amico camoscio, sentendo gli uccellini che riprendevano a cantare, mi è passato veloce un pensiero: l'uomo si distingue da tutto ciò che lo circonda perché ha coscienza di sé, fin da bambino accresce questa coscienza con dei "perché?" e si scervella per rispondere.
I sassi, i prati, le galline di montagna vivono la loro esistenza semplicemente in quanto "sono". Riflessi di Colui che si è presentato a noi come "Io sono"?
Si possono aprire gli occhi in una notte di stelle.

Dove il buio è buio e l'alba è alba


Compagni di cordata
Dove il buio è buio e l'alba è l'alba
di Donato Chiampi

Quando la scalata diventa un'intensa esperienza spirituale.
Sicuramente le grandi avventure mozzafiato, i resoconti meravigliosi dei grandi miti dell'alpinismo, i nuovi ironman che raccontano (sponsorizzati) in diretta su Internet le emozioni o tragedie dagli 8000 himalayani, non si avvicinano per nulla alle nostre modeste, semplici, normali scalate in montagna. Perciò molto più difficili da raccontare. Per noi sono momenti speciali, intensi. Ci si lega, e non solo con la corda, si vive un'esperienza che non è esercizio fisico, esibizione o sfida. Certo, sicuramente c'è anche un po' di queste cose, ma molto,molto di più.
Senza prenderci troppo sul serio possiamo chiamarla "esperienza spirituale con intenso uso dei sensi".
Lagazuoi, Alta Val Badia, "via del tetto". "Hai visto quei due? Ognuno ha una minuscola ricetrasmittente sullo spallaccio dello zaino!".
Girando di poco la testa i due si parlano. Sono americani e parlottano in quella lingua che per anni studiamo a scuola e che poi quando dobbiamo usarla, non-sappiamo-come- si-dice.
Noi due, che siamo all'antica, facciamo così: lui dalla sosta urla: "Dammi cordaaaa", io dall'altra sosta, 50 metri più in basso: "Recupera cordaaa". Che poi è la stessa cosa, ma in tanti casi non ci sentiamo!
All'antica. Ad un certo punto mi sporgo da un grosso masso a sinistra, invece che a destra. Miracolo della propagazione sonora: mi sente perfettamente.
Tecnica, tecnica, oltre che atrofizzarci l'iniziativa ci togli tutti i gusti.
Un bell'urlo "Cordaaaa", un bel freddo, un bel caldo, una bella stancata… altro che l'ascensore per "scendere due piani"! Bene.Andare in montagna comporta anche questo, riprendersi un po' di quel che di umano molte volte la modernità ci ha tolto: la sofferenza e la gioia.
Avevamo dormito nel bivacco Rainetto, nel massiccio del Monte Bianco, dormito?! Come si dorme in un bivacco. Ci siamo alzati che era ancora buio e, dopo una succulenta colazione, con la mal nascosta eccitazione di ogni partenza, siamo usciti. Abbiamo subito acceso le lampade frontali perché il buio in certi posti è "buio" e, calzati i ramponi, siamo partiti.
Giunti al luogo dove avremmo dovuto calarci, per risalire su un altro ghiacciaio, abbiamo iniziato a cercare il punto migliore. I nostri due fasci di luce illuminano debolmente pochi metri, è un misto di ghiaccio, neve e rocce.
"Non continuiamo". "Va bene". In questi posti non si tengono lunghe conferenze. Abbiamo raggiunto la vicina cima della montagna su cui eravamo ed abbiamo atteso l'alba ormai prossima. A quell'altitudine l'alba è "l'alba". Maestosa, imponente. Prima si illuminano le cime più alte, e poi giù, fino in fondo, le valli. Nella magnificenza, tipica della natura, i colori si susseguono, si rincorrono, si fondono tra loro, finendo l'ouverture in un'esplosione di luce.Nei pochi millimetri delle mie pupille entra uno spettacolo che spazia per centinaia di chilometri e, (ma come fa?), entra identico anche nelle pupille del mio compagno.
Impressionando sulla pellicola fotografica i mutamenti della scena che si evolve velocemente, vediamo in lontananza il Cervino. Il cielo è tutto sereno, solo sul Cervino c'è una nuvola nera. Esplode la tempesta con lampi e fulmini, un piccolo finimondo in mezzo ad un mare di quiete.
Finito il meraviglioso show torniamo giù. Certo, l'alba è stata bella, ma non è questa l'esperienza più vera di quel giorno. Aver rinunciato insieme, riconosciuto apertamente che ci siamo fermati, cambiato il programma, studiato e sognato.
La via è tutta su roccia, dolomia, un incanto. Come sempre, arrampichiamo alternandoci nel salire da primo di cordata. A metà parete, appena partito da una sosta dentro una nicchia, una novità piomba inaspettata: "E se non riesco?". Non era mai successo. Le dita con cui mi tengo, le gambe, tutto il corpo chiede, anche se la domanda parte chiaramente dalla mente. D'accordo, mi ero allenato poco, ma non è questo il pensiero principale. Intanto il mio compagno è lì, a pochi metri, facendomi sicurezza con la corda, gli occhi e brevi parole. E aspetta. Quei brevi attimi creano un'infinità di collegamenti elettrici nel cervello, e poi ricordi infantili, archetipi che si materializzano, adrenalina.
Riparto. Altro che scalata! Un contatto affettuoso con la roccia, un abbraccio confidente alla montagna, quasi una danza in verticale. Alla sosta, quando mi raggiunge, penso di aver detto al mio compagno: "Ho avuto paura, poi ho scalato splendidamente ", e lui: "Ho visto". Forse ho rappresentato, con l'aiuto della natura, quel che accade anche quando la parete non è di roccia. Indispensabile ricordarsi di non essere soli.
E diciamolo: ma quando mai ci fidiamo completamente di un'altra persona? a tal punto da mettere la propria vita nelle sue mani? C'è un'esperienza particolare, che poi provano tantissime persone, ed è quella di legarsi in cordata. Fino a quando non si prova è impensabile capirla a fondo.
La corda, lunga circa 60 metri, unisce due o più scalatori. Si lega in vita ad una cintura con cosciali detta "imbracatura" ed è, da quando è nato l'alpinismo, il mezzo per non precipitare in caso di caduta. Si utilizza su qualsiasi terreno: su ghiacciaio, parete di roccia, arrampicando su cascate di ghiaccio, su una breve falesia in riva al mare. Quando salgo il mio compagno mi assicura, lo assicuro io quando sale lui.
Mi sta seguendo con lo sguardo?
"Mi da troppa corda? O troppo poca?
È concentrato? La manovra che sta facendo con l'attrezzatura è giusta?
Ora non lo vedo, e dopo lui non vedrà me, troppi metri ci dividono prima di riunirci.
Me lo chiedo sempre quando arrampico: nella vita quotidiana riesco a immedesimarmi completamente nell'altro? E l'altro? Lo rassicuro a tal punto che si fida e si mette nelle mie mani? Naturalmente per situazioni importanti, non per bazzecole. Riesco a sentirmi così legato da essere completamente preso da ciò che l'altro vive? Attenderlo, sostenerlo, seguire la sua andatura, avvertirlo, consigliarlo, rifocillarlo, complimentarmi con lui.
Quante cose insegna una semplice corda legata in vita!
Incontri provvidenziali. Quante persone abbiamo incontrato su ghiacciai, pareti, rifugi o bivacchi?
Tante, in molti casi personaggi. Raccontiamo di qualcuno.
La sera prima avevamo raggiunto il rifugio ed ora, con gioia e soddisfazione, saliamo il nostro secondo 4000. Appena partiti accendiamo le lampade frontali per non finire in un crepaccio, dicono che non è divertente.
La luna è piena, enorme, e il ghiacciaio riflette la sua luce. Spegniamo le nostre due misere lampade e procediamo con la luce naturale della notte.
Il sole è alto mentre stiamo per raggiungere la cima Gnifetti sul Monte Rosa, quando incrociamo un uomo. Lo ricordiamo ancora bene, con la barba, giacca a vento marrone, lo zaino, le stampelle… una gamba sola! Ma come è arrivato quassù? Ci salutiamo. E noi ci ridimensioniamo, la nostra fatica e conquista si inchina di fronte al personaggio con due punte d'acciaio sulle stampelle, per avanzare su un ghiacciaio.
Al ritorno incontriamo una cordata, ci salutano in tedesco alcuni giovani.
Per ultimo ci saluta un uomo che non avevamo notato subito: piccolo, anche perché curvo, grandi baffi, capelli candidi come la neve attorno a noi. Ha un abbigliamento ed una attrezzatura da far morire d'invidia qualunque direttore di un Museo della Montagna, ed un sorriso sereno, bello, rivolto a noi. Caro nonno, ci hai proprio conquistati!
Altri due personaggi ricordiamo volentieri.
Stiamo scalando sullo spigolo del Pollice, alle Cinque Dita, Sassolungo.
Davanti a noi ci sono altre cordate, vanno spedite perché hanno una guida alpina che ripete i movimenti - quasi - ad occhi chiusi. Siamo già alti quando raggiungiamo una cordata di due persone, non hanno la guida... Ehi, sono due signore! Generosamente le stimiamo sulla sessantina. Di solito si incontrano più facilmente nel foyer di un teatro (sono leggermente truccate), e invece sono lì: decise, sicure, contente dello spigolo aereo che regala loro un panorama fantastico.
Le due signore non immaginano quanto ci hanno trasmesso. Solamente il giorno prima avevamo immaginato quali gite in fondo valle avremmo potuto fare una volta superata la sessantina… Attraversiamo il ghiacciaio e arriviamo, emozionati, ai piedi della Pyramide de Tacul. Un pilastrone di granito che pare una piramide. Ci sganciamo i ramponi, posiamo le piccozze, togliamo gli scarponi per infilarci le scarpette da arrampicata. Stiamo per iniziare la scalata in un bel sole d'agosto quando il compagno mi dice: "Gira gli scarponi, con la suola in alto". Quale rito arcano si nasconde nel voltare gli scarponi?
Iniziamo la scalata. Abbiamo già fatto almeno otto lunghezze di corda quando inizia a nevicare! Nel massiccio del Bianco succede, anche in agosto.
Iniziamo così a calarci con le corde doppie. Senza intoppi raggiungiamo la base della parete. Tolgo le scarpette e prendo i miei scarponi, li giro e li infilo: asciutti!
Ora è chiaro che non si può indicare o riconoscere in questi brevi racconti qual è lui e quale sono io.
È proprio lo stesso.

Prima uomo, poi alpinista


Le sfide di uno scalatore

Prima uomo, poi alpinista

di Domenico Salmaso

«I veri Everest sono qui, nella vita di tutti i giorni» Intervista a Simone Moro, uno spirito che è connubio tra cuore e testa.

Incontrare un alpinista del calibro di Simone Moro, per uno appassionato di montagna come me, non poteva che risultare estremamente emozionante. Pensavo infatti che mi sarei trovato di fronte ad un colosso himalayano difficile da scalfire. Subito invece, da come ci hanno presentati, mi sono trovato a mio agio con una persona di una semplicità e disponibilità uniche. Si aveva la sensazione che il cuore si spalancasse di fronte all’immenso del suo vivere. Dialogando, a poco a poco mi sentivo catapultato nel suo mondo fantastico dell’alta quota, dove roccia e ghiaccio la fanno da padroni, e che solo con un atteggiamento nobile come il suo ci si può permettere di avvicinare.
Nonostante momenti duri e drammatici vissuti con altri compagni in questi ambienti severi, Simone continua nella sua avventura di esplorazione.
Il primo aprile 2006 partirà per l’Himalaya per tentare una nuova via in solitaria, dove ancora una volta si misurerà con i suoi limiti. Si tratta della sua terza spedizione sul “Lhotse”, che con i suoi 8516 metri è la quarta montagna più alta della Terra, superata solo dall’Everest (8848 m), dal K2 (8611m.) e dal Kangchenjunga (8598 m).

Simone, hai detto: «Ho “peccato” scalando anche lungo le vie normali, ma ho capito da tempo che l’alpinismo vero viaggia con altri approcci fisici e mentali verso l’avventura verticale». Prova a spiegarci quali sono per te le dimensioni più vere dell’alpinismo.
«Le dimensioni vere dell’alpinismo sono quelle che hanno una componente esplorativa. Se io percorro una via già aperta da qualcuno o già ripetuta da più persone, sicuramente in quel percorso non c’è esplorazione ma una clonazione di un percorso. Diciamo che nella mia fase formativa ho imparato ad accorgermi dei miei errori, rendendomi conto che mi trovavo “in fila” nel modo di pensare e di fare alpinismo e ho capito che non era quanto cercavo. Cercavo, infatti, lungo un itinerario esplorativo una parte di me che conoscevo e un’altra parte che non conoscevo. Allora basta con le vie normali, basta con le vie dei primi salitori: voglio fare una via mia, dove poter trovare con la mia fantasia e la mia capacità le linee ipotetiche per scalare una montagna. È in questo senso che intendo l’esplorazione».

Nel 2004 hai vinto due pareti nord estreme in stile alpinistico: la nord del Baruntse e la nord dell’Annapurna: prova a spiegarci il valore particolare che hanno per te queste pareti così difficili.
«Sono molto diverse: una cosa è un 8000 Annapurna e un’altra è un 7000 il Baruntze. Pur essendo un 7000, l’ho voluto tentare particolarmente in quell’anno. È una montagna che sta esattamente di fronte all’Everest e al Lhotse, che sono le vette più conosciute e viste. Ed è curioso come tutti gli alpinisti, e anch’io, ci siamo innamorati della montagna più alta. È come la donna più bella: tutti se ne innamorano. E in questo caso ciò accade della parete più bella e più appariscente. Ce ne sono altre invece più piccole e meno belle dove però si possono trovare delle linee fantastiche di salita: una di queste è il Baruntze ancora vergine, che si è rivelato molto più difficile e interessante dell’E-ve-rest».

Shisha Pagma in invernale a gennaio 2005: un’altra sfida vinta. Quali sono le difficoltà e le soddisfazioni offerte dall’alpinismo invernale sugli ottomila?
«Innanzitutto bisogna dire che l’alpinismo invernale sugli 8000 rappresentava fino al 14 gennaio 2005 un’esclusiva dell’alpinismo polacco. Non c’è mai stato nessun alpinista, che non fosse un polacco, in grado di scalare una montagna di 8000 metri d’inverno. Neppure i grandi come Reinhold Messner, Kurt Diemberger, Walter Bonatti. Adesso c’è un bergamasco che, insieme con il compagno polacco Piotr Morawski, ha raggiunto sull’Himalaya in inverno la vetta del Shisha Pangma (8027 m).
«Le difficoltà dell’alpinismo invernale stanno nelle condizioni ambientali decisamente rigide. Se descrivo quel momento quando mi trovavo in cima c’erano 52 gradi sotto zero e 120 chilometri orari di vento. Quindi è un alpinismo dove la “soprav-vivenza” rappresenta una componen-te molto forte».

«È più facile perdere che trovare un amico in alta quota». Nell’im-maginario collettivo gli alpinisti degli ottomila sono descritti come personaggi solitari: che valore ha per te condividere con altri un avventura alpinistica?
«Devo sempre ricorrere a un paragone. È come l’amore: quando sei innamorato di qualcuno, hai voglia di gridarlo a tutti. Lo vuoi gridare a lei, lo vuoi gridare al mondo. E così è anche con l’alpinismo. Un alpinismo fatto sempre e solo in solitaria, secondo me, è un alpinismo che si priva di una componente che è quella delle gioie e della condivisione. È vero, d’altra parte, che ti mette ancora di più sul piedistallo, tanto è che ad aprile parto per fare una scalata in solitaria.
«L’alpinismo solitario è bello ed è il top del top, però, come dicevo, manca di quelle condivisioni; ecco perché a me Simone, non essendo un solitario ma una persona abbastanza solare, è sempre piaciuto condividere queste esperienze con qualcuno. Ciò non significa che sia andato sempre con spedizioni composte da tante persone. Di solito i miei compagni sono uno o due, massimo tre. Mi sembra una sfida più leale verso la montagna. A me gli assalti di gruppo non piacciono».

Sei diventato famoso per avere rinunciato alla cima del Lhotse per salvare un altro alpinista: che valore dai a quel gesto?
«È più facile essere dei bravi alpinisti che non essere bravi uomini. È la differenza tra maschio e uomo; essere maschio è una caratteristica del tuo sesso, essere uomo è un valore aggiunto. Si diventa uomini attraverso quelle che si chiamano tappe della saggezza, e per passare queste tappe in maniera naturale, senza montarti la testa, devi compiere un percorso educativo. Io ho avuto un papà e una mamma che mi hanno insegnato quali sono i valori della vita. Mi piace pensare che un alpinista ragioni sempre usando il suo senso civico e non solo le proprie ambizioni. Bisogna sempre fare un connubio tra il cuore e la testa. Talora i grandi alpinisti sono diventati tali, pur non avendo saputo essere grandi uomini. Perché i veri Everest sono qui, nella vita di tutti i giorni.
«L’Everest fisico è più facile da superare, è soltanto una montagna. Ce la faccio o non ce la faccio… Nella vita di tutti i giorni i problemi non sono “o ce la faccio o non ce la faccio”. Sono ancora più vincolanti. In quel momento sul Lhotse mi sono comportato come penso anche altri si sarebbero comportati».



BOX

Simone Moro è nato nel 1967. Guida alpina, atleta e istruttore federale, arrampica dall’età di 13 anni e oggi pratica tale attività a tempo pieno, realizzando spedizioni alpinistiche sulle grandi montagne della Terra: Himalaya, Karakorum, Ande, Patagonia, Antartide, Thien Shan, Pamir.
Il primo vero grande successo lo ha ottenuto con la salita al Lhotse (8516 m) nel 1994 in sole 13 ore effettive (17 totali), partendo da 6300 m di quota. Le più recenti realizzazioni alpinistiche sono le salite alle quattro montagne di oltre 7000 m della Russia in soli 33 giorni (record).
Nel 1996 ha conquistato il Fitz Roy (3441m) nella parete ovest lungo l’itinerario integrale della “Supercanaleta”. Nello stesso anno sale senza ossigeno gli 8008 m dello Shisha Pangma Sud.
Le ultime più eclatanti salite sono state la doppia salita all’Everest nel 2000 e nel 2002, la salita al Cho Oyu (8201 m) e il raggiungimento della cima del Vinson (4895 m) in Antartide, sempre nel 2002. Il 2003 è iniziato con la salita al Kilimangiaro (5895 m) ed il conseguimento di importanti riconoscimenti come il Fairplay Pierre de Cubertin tropy a Parigi dall’Unesco e le medaglie d’oro al valor civile dal presidente della Repubblica Ciampi e dalla regione Lombardia. Simone ha anche conseguito il prestigioso David Sowles Award dall’American Alpine Club. Tutti questi riconoscimenti di valore mondiale sono stati ricevuti per il salvataggio estremo che Simone Moro ha operato da solo, senza ossigeno e a rischio della sua stessa vita, per cercare e trarre in salvo l’alpinista inglese infortunato Tom Moores.

Benvenuti!!!

Ciao a tutti!
L’idea di questo blog è nata per tenere uniti tutti coloro che hanno iniziato a partecipare alle escursioni in montagna organizzate da Domenico, detto Dono.

Domenico è un appassionato di montagna, uno scalatore, ma è anche una persona che prima di tutto ha scelto di condividere questa passione con altri .
L’idea di organizzare delle escursioni, adatte alla maggior parte degli appassionati, è nata con l’intento di conoscere persone e di portare avanti insieme un’esperienza che tenga conto dell’attenzione degli uni verso gli altri e quindi, di riflesso, verso la natura.
Ci sono alcune regole:

• le escursioni sono aperte a tutti;
• ciascuno sia disponibile a conoscere e farsi conoscere;
• fare in modo che tutti si trovino a loro agio e siano contenti;
• rispettare i tempi e le esigenze di ogni partecipante;
• trascorrere una giornata a contatto con la natura;

Poche altre regole, unite al grande desiderio di offrire, a chi lo desidera, la scoperta in maniera graduale dell’ambiente montano.

Si è iniziato quest’anno, quasi per gioco, con quattro escursioni fatte; la cronaca delle ultime potete leggerla su questo blog.
In programma ce ne sono altre: il calendario sarà comunicato in tempo sul blog.
Per il prossimo anno, si spera di riuscire a stilare un calendario che, da gennaio, indichi le date e i luoghi di ogni mese.
Le escursioni sono aperte a tutti quelli che desiderano stare in compagnia, che amano la montagna e sono aperti alla conoscenza ed al dialogo sulle cose che sono veramente importanti, e non solo.

Questo blog nasce anche come punto di riferimento di confronto e di contatto per tutti quelli che lo desiderano, sia per la montagna che per tanti altri argomenti che man mano verranno proposti.
Vi aspettiamo!

Monte Gennaro


Escursione M. Gennaro

Una domenica con Domenico e diverse altre persone,(14 ) è quello che ho vissuto oggi.
Il titolo del post penso diventerà un blog (l’dea del nome di Raffaella, mi è piaciuta subito) dove poter riportare tutte le iniziative che si faranno e tutte le impressioni dei partecipanti, insieme a foto ed altro.
Cosa abbiamo fatto? Una cosa molto semplice: Domenico,( per gli amici Dono) ha organizzato di andare insieme in montagna. Tutto qui, vi chiederete? Tutto qui, perchè non conoscete Domenico che, oltre ad essere una persona umanamente eccezionale, è un esperto di montagna, ed un provetto scalatore.
Mettendo insieme tutte queste doti, e tanto altro ancora, ne viene fuori una persona eccezionale con il quale è piacevolissimo stare.(spero non mi rimproveri per questa "pubblicità")
Gli altri giovani che sono venuti, a caratteristiche umane non sono da meno ma, come escursionisti montanari sono alle prime armi , ovvero ai primi passi!
Manco a dirlo il più “vecchio” sono io, e subito dietro Mauro (ortopedico di fama, e di fiducia), non siamo certamente ai primi passi: a camminare ce la caviamo bene; anche se io ho un piede con qualche problema e,ironia della sorte l'ortopedico ha le ginocchia doloranti!)
Siamo stati su una montagna bassa, (1.279mt) però molto bella: Monte Gennaro (se non ricordo male ne ho già parlato in altro blog,la memoria inizia a fare cilecca!)
Oggi che è iniziata l’ora legale noi che abbiamo fatto?Anziché dormire un’ora di più ci siamo alzati ancora più presto (come fanno i bravi escursionisti montanari) e ci siamo diretti alle pendici di monte Gennaro!
Dopo le varie incertezze sul sentiero da seguire, cartina alla mano, siamo partiti!
A dire il vero alcuni senza la giusta attrezzatura: almeno un paio di scarponcini con bordo alto per evitare storte al piede, sarebbero stati necessari! Ma sò giovani e superano tutto molto facilmente.
Giornata splendida: sole, temperatura ideale, poca ventilazione.
Il percorso e bellissimo perché passa in mezzo ad una faggeta con degli alberi enormi (abbiamo provato ad abbracciarne uno, ci siamo dovuti mettere in cinque con le braccia ben allungate). Nella loro maestosità sono un incanto!
Un percorso un po’ accidentato all’inizio, che però poi sfocia in un immenso prato con l’erba bassissima e primi fiorellini sbocciati qua e là.
Il clima, tra tutti, bellissimo: si scherza, si ride in modo semplice e rilassante. Anche se con alcuni ci siamo visti per la prima volta, grazie alla disponibilità l’uno verso l’altro si è subito familiarizzato.
Qualche pausa di riposo è stata necessaria, stì ragazzi sò poco allenati, ma la salita è stata bellissima e a dire il vero abbiamo impiegato un tempo accettabile per un gruppo, circa due ore.
In cima c’era un po’ di foschia e si riusciva a vedere i monti abruzzesi (monte velino tutto innevato), il Pellecchia e qualche paesino sottostante.
Ci siamo riposati e rifocillati come si conviene! Stare al sole era piacevolissimo.
Poi la discesa perché qualche nuvola iniziava ad avvicinarsi.
Per scendere seguendo le indicazioni abbiamo seguito un alto sentiero, bellissimo anche questo.
Il clima festoso e di conoscenza reciproca è continuato per tutta la discesa.
Ci siamo salutati con la promessa di rivederci per vivere insieme: un’altra “Domenica con Domenico!”

Fontecellese



Monte Fontecellese

Eccoci al secondo, per alcuni il terzo, appuntamento con Domenico detto Dono, per un’altra giornata sui monti.
L’itinerario di oggi: Monte Fontecellese (Carsoli).
La partenza presto (per alcuni, orari improponibili la domenica), da due punti diversi della città per ritrovarsi all’uscita dell’autostrada, Carsoli.
Le previsioni non sono delle migliori! E’ prevista pioggia ma, quando si è deciso di andare si va, senza preoccuparsene molto.
Molti si sono lasciati spaventare dalla meteorologia avversa e così ci ritroviamo solo in undici. Come capita spesso il più “vecchio” io, tutti gli altri giovani e giovanissimi. Con alcuni ci si conosce, con altri si fa subito amicizia!
Qualche piccolo imprevisto e contrattempo è sempre da mettere in conto: andare in montagna sviluppa la pazienza, e così iniziamo la salita alle ore 9,55.
Cominciamo a camminare, poco dopo incontriamo un gruppo di scout che stanno già scendendo: in montagna è necessario essere mattinieri ma noi siamo cittadini e per di più romani o giù di lì (i romani, anche se ai tempi belli hanno conquistato mezzo mondo, si sono fatti la fama di essere un po’ pigri e comodi….).
Poco dopo incontriamo due alpinisti, dall’aspetto e dal passo…anche loro scendevano già!
Il percorso quasi subito inizia a salire, ma sò tutti giovani, mica dovrebbero risentirne?.....o no?
Dopo 45 minuti una prima tappa: si giunge in una bella radura dove c’è una piccola chiesetta con a lato un locale con camino e legna! Un gruppo di mucche e vitellini sono al pascolo libero; poco dopo il nostro arrivo, pensano bene di allontanarsi: ‘stì cittadini quanto rumore fanno!!
Qualcuno è già stanco….non ci sono più i giovani di una volta!!
Si fa un briefing per decidere cosa fare: proviamo a salire ancora, con la speranza che la nebbia si alzi dandoci la possibilità di seguire il sentiero senza difficoltà!
Riprendiamo il cammino dopo aver ritemprato le forze con l’ausilio di cioccolata, frutta secca, ecc.
La salita è ripida e non tutti riescono a seguire il ritmo del capo fila.
Si sale per ancora 40 minuti fino a giungere in un’altra piccola radura. La nebbia inizia ad infittirsi e così il capo, Dono, decide che non è più prudente proseguire. Molti gioiscono in cuor loro, erano già stanchi; per qualche altro una piccola delusione non poter salire in vetta!
Si inizia la discesa con l’impegno di recuperare legna nel sottobosco per il fuoco.
Arrivati nella radura con chiesetta e locale con camino, ci organizziamo velocemente per accendere il fuoco. All’inizio stenta ad avviarsi ma con un po’ di pazienza si riesce a fare un bel fuoco. Graticola pronta e non appena si forma un po’ di brace ecco che sfoderiamo le vettovaglie che il capo aveva suggerito di portare: salsicce e wurstel.
Inizia la lenta cottura, mettiamo anche il pane ad abbrustolire, inizia un’attesa che il profumino delle salsicce alla brace mette a dura prova (come spesso succede: lo spirito è forte ma la fame è tanta!) . Qualcuno cerca di fermare la fame con qualche panino già pronto. Man mano che la cottura procede si inizia a distribuire la carne cotta con il pane abbrustolito: che bontà! Si va avanti per un po’ poi, non avendo altro, si mette a scaldare qualsiasi cosa, panini già pronti, mozzarella fatta a fette, addirittura crackers.
Qualcuno ha portato la Nutella mangiandola poi in tutti i modi, anche con le salsicce!!
Fino a quando non abbiamo esaurito tutto il mangiabile, tutti rimaniamo intorno al fuoco; poi, sazi, qualche momento di riposo. Il capo d àsempre il buon esempio iniziando a riordinare il luogo!
Dopo qualche momento di riposo ci rendiamo conto che qualche goccia di pioggia inizia a cadere, aiuto!….non è che ci prendiamo una bella fradiciata? Decidiamo di affrettare la discesa.
Alle 14.50, siamo sulla via del ritorno.
Le gocce di pioggia sono poche e finissime tanto da non disturbare.
Qualcuno ha il passo più veloce perché teme la pioggia improvvisa ed intensa ma riusciamo ad arrivare alle macchine appena in tempo per non bagnarci.
La solita capatina al bar più vicino, non tanto per mangiare (le salsicce devono ancora essere smaltite) quanto per bere qualcosa .
Ci salutiamo con affetto ed amicizia, con la gioia nel cuore per aver vissuto una bellissima giornata di sincera amicizia, a contatto con la natura, nonostante le condizioni meteo non delle migliori.
L’unico piccolo rammarico per me, appassionato montanaro, è quello di non essere riuscito ad arrivare in vetta. Ma, come ho scritto altre volte, in montagna è bello arrivare in vetta, ma è anche bello fermarsi quando le condizioni non lo permettono!



berardo

Sprone Maraoni


Escursione: Sprone Maraoni.

Domenica con Domenico,3


Questa mattina siamo in pochi, io da solo e 4 dalle grande Roma, solo in 5!

Lo spirito è forte ma…..il sonno è tanto!

Però mica ci lasciamo scoraggiare, anche se pochi la gioia di salire insieme verso la metà c’è in ognuno!

L’appuntamento con il gruppo, proveniente da Roma, è all’uscita del casello di Colleferro della A1.

Pochi saluti perché è gia tardi (qualcuno ha dormito un pochino di più…so ragazzi!) e poi via verso Gorga!

La tradizione di prendere un caffé, insieme, non è stata ancora ben messa a punto come con il gruppo il Ginepro, è lasciata alla casualità ed all’iniziativa di qualcuno coraggioso ma…si migliorerà! (so ragazzi!)

Mentre siamo in viaggio arriva la telefonata: altri due ragazzi (due fidanzatini) non avendoci trovati all’appuntamento al casello (siamo partiti qualche minuto prima pensando che non venisse più nessuno) hanno telefonato dicendo che anche loro desideravano venire…benedetti stì telefonini!

Ci fermiamo ad aspettare, felici per la crescita del numero, proprio all’ingresso di Gorga.

Con i più coraggiosi, quasi tutti ad eccezione di Dono che si è sacrificato per aspettare sulla strada, andiamo nel piccolissimo bar di questo paesino: niente cornetti freschi ed un caffé di qualità discutibile. Però quello “passava il convento”! Comunque la fame di qualcuno ed il tanto sonno fanno superare anche la qualità scadente del caffé e della merendina confezionata.

Ritorniamo indietro giusto il tempo per assistere all’arrivo dei due altri nostri prodi giovani! Dono fa le presentazioni velocemente e ci rimettiamo in macchina per arrivare all’inizio del sentiero.

Finalmente, ad un’ora impensabile per dei montanari, le 10, iniziamo l’escursione!

Ci incamminiamo e quasi subito lasciamo la strada sterrata per prendere il sentiero che inizia a to a salire con una pendenza interessante.

L’andatura che impone il capo fila, Dono, è sostenuta ma, oggi, so tutti forti e seguono con scioltezza, a parte qualcuno!!

Si passa all’interno di una bellissima faggeta, il canto degli uccellini ci accompagna. Il silenzio è rotto solo dal rumore dei nostri passi, si parla poco per risparmiare il fiato.

Dopo un po’ di cammino ci accorgiamo che in alcuni punti il sentiero non è segnato molto bene e ci si deve fermare (meno male) per capire bene dove andare. La nostra guida, con l’occhio attento ed esperto, riesce ad individuare anche segni del sentiero molto vecchi e quasi invisibili.

Dopo un’ora di salita ci fermiamo in una radura, al sole che è molto gradevole dopo essere passati all’ombra dei grossi faggi.

Proviamo a ripartire poco dopo ma, ancora indecisione per mancanza di segni del sentiero. Dono va avanti in avanscoperta per cercare di capire quale è la via giusta (in montagna ci si può perdere con una facilità incredibile). Dopo un po’ ritorna e ci indica il sentiero che prosegue sino ad un bivio, dove si va? Come capita spesso nella vita bisogna scegliere ed andare da una parte pronti a tornare indietro qualora si capisce si aver sbagliato. Per nostra fortuna la scelta fatta era quella giusta e si prosegue tra faggi e radure molto belle con l’erba verde e fiorellini gialli!

Ancora un bivio dove però sono indicati il numero del sentiero 17° a destra e sentiero 20 a sinistra. Noi prendiamo decisamente il 20 a sinistra in linea con la svolta politica dell’italia!

Rientriamo nel bosco con altri faggi però questa volta molto alti, bellissimi e maestosi. Facciamo l’incontro con delle persone che a cavallo di muli (ci dicono che stanno facendo un lavoro per allestire un rifugio più avanti) stanno riscendendo. Chiediamo spiegazioni sul sentiero e ci dicono che manca poco per lo Sprone. Sono più di due ore che camminiamo e qualcuno inizia ad accusare qualche sintomo di stanchezza (so ragazzi!).

Sentire che manca poco ridona nuove energie e si riparte, qualche piccolo sentimento di invidia peso che l’abbiamo avuto: loro a cavallo dei muli, noi a piedi a faticare: Così è anche la vita!

Camminiamo per un altro tratto ed ecco che intravediamo lo Sprone. Presi dall’entusiasmo iniziamo a scendere sul primo segno di sentiero che intravediamo su un albero. Il sentiero scende rapidamente, dopo poco ci rendiamo conto che non può essere quello perché ci allontana dallo spore che vediamo alla nostra sinistra. Risaliamo e facendo attenzione scorgiamo un altro piccolo e scolorito segno di sentiero, nella direzione che ci sembra più giusta. La montagna continuamente presenta metafore di vita concreta: abbiamo sbagliato, torniamo su nostri passi e riprendiamo il cammino senza stare a pensare troppo all’errore!

Lo sprone orami lo vediamo in alto e non possiamo più sbagliare. Passiamo in una piccola radura dove da un lato sotto gli alberi c’è una piccola costruzione con un cartello:” Hotel Pinguino”! Ci viene da sorridere pensando sia all’hotel, che al pinguino. Vicino a questa costruzione un gruppo di persone vicino ad un fuoco che preparavano da mangiare, scambiamo qualche battuta e sferriamo l’attacco ( si fa per dire) alla ripida parete che ci separa dalla cima dello Sprone.

Il più giovane Andrea (16 anni, beato lui) avanza con una rapidità impressionante, chi glie la fa a stargli dietro? Ci provo ma arrivo in cima con la lingua fuori!

Finalmente alle 12,45 siamo in vetta!

Sulla sommità una bellissima croce che domina la veduta di una vallata immensa e bellissima. Solo un po’ di foschia rende lo spettacolo meno entusiasmante di quello che appare.

Finalmente un po’ di riposo dopo lo sforzo finale.

La foto di rito con l’autoscatto sotto la croce e, finalmente, si può mangiare.

I menu, come al solito, variano a seconda dell’età e delle caratteristiche di ognuno ma tutti sono ben presi da questa interessante operazione che consideriamo come un premio per la fatica fatta.

Quando si arriva su una vetta ci si sente subito appagati, ci si rilassa con la consapevolezza di avercela fatta, tutto il resto, stanchezza compresa, diventa relativa!

Il sole fa qualche piccola apparizione dietro a delle nuvole che a volte sembrano minacciose ma che poi non danno seguito alle minacce!


Si riparte poco dopo circa un’ora per cercare di non fare molto tardi.

Noto che ogni volta che si ridiscende si è più silenziosi, un po’ la stanchezza un po’ quella sorta di appagamento per essere arrivati in vetta di cui ho detto sopra.

Si ridiscende un tratto e poi ci aspetta una bella salita perché arrivando era una discesa! Quando si ridiscende trovare una salita non è piacevole ma in silenzio l’affrontiamo senza protestare. Una volta sopra inizia la vera discesa, e tutto diventa più facile. Decidiamo di non ritornare per il sentiero fatto ma di proseguire per la strada sterrata che passa per il fontanile che salendo abbiamo saltato e che dovrebbe riportarci, per altra via dove abbiamo lasciato le macchine.

La discesa è agevole ed io (il più vecchio ) e d Andrea (il più giovane) proviamo ad allungare il passo e distacchiamo tutti; poi però più avanti ad un bivio aspettiamo tutto il gruppetto e riscendiamo insieme. Al fontanile, con acqua fresca ci dissetiamo, ma neanche tanto perché non è stata una giornata particolarmente calda. Facciamo l’ultimo tratto sino alle macchine scaldati dal sole e dal sentimento di amicizia che si è creato tra tutti.

Ripartiamo dopo aver fissato di fermarci al primo bar per una bevuta, tutti insieme, prima di ridividerci per tornare in posti diversi.

Anche oggi, nella semplicità del rapporto tra tutti, la bellezza della natura abbiamo vissuto una bellissima domenica con il “grande” Domenico!

Alla prossima!

berardo

Jè en Jeunn


Jè en Jeunn

CAMMINANDO, CAMMINANDO

Testo e foto di Domenico Salmaso

È un pellegrinaggio sui generis quello dei ladini all’abbazia di Sabiona. Una testimonianza di fede che lascia un segno duraturo in chi vi partecipa.

Era stato Lois, un mio amico della Val Badia, a parlarmi di un originale pellegrinaggio che si svolge ogni tre anni in quella valle. Rimasi incuriosito, fra l’altro, dal fatto che i partecipanti sono tutti maschi: dai saggi anziani con la barba bianca ai giovanissimi, dai più assidui in chiesa a quelli che la frequentano soltanto nelle ricorrenze più importanti. Tutti mossi però da un qualcosa di profondo che li attirava verso l’abbazia di Chiusa.
La marcia si svolge in fila, a coppie; ad ognuno è assegnata una precisa posizione che manterrà rigorosamente fino alla fine. Durante le dieci ore al giorno di cammino per un centinaio di chilometri, la preghiera è costante nello sgranare il rosario, e il canto ininterrotto.
Il “grande pellegrinaggio dei ladini”, che i pellegrini chiamano Jì en Jeunn (andare in Sabiona), fa parte della storia di questa abbazia. Le radici di questa tradizione risalgono al 1503, stando ai documenti ritrovati; ma sembra che i ladini abbiano iniziato questo pellegrinaggio già nel 1338 per impetrare la liberazione dall’invasione delle cavallette e dalla peste che perduravano da anni. Dopo una pausa, durante il periodo napoleonico, queste processioni sono state riprese con una nuova motivazione: andare a ringraziare della fede ricevuta.
Il pellegrinaggio si tiene verso la metà del mese di giugno, quando i contadini non hanno ancora cominciato il lavoro duro nei campi. Ogni famiglia cerca di partecipare con almeno un pellegrino, ciò che è ritenuto di buon auspicio per il raccolto.
Nel descrivermi con entusiasmo la sua esperienza, Lois mi ha convinto a far parte almeno una volta di questo originale popolo: volevo capire cosa spinga ciascuno a fare tre giorni di faticoso cammino con qualsiasi condizione meteorologica (qualche volta sui passi o sui sentieri più impervi si trova ancora la neve, mentre durante i giorni più caldi, sulla strada che dalla Val di Funes porta a Chiusa, sotto i piedi l’asfalto diventa rovente).

Finalmente l’8 giugno, data fissata per la partenza. Zaino in spalla, mi sono unito ai 1046 partecipanti di quest’anno in partenza per Sabiona.
Il tempo prometteva bello per tutti e tre i giorni, e così è stato. Fin da subito ho notato l’armonia, l’ordine e la puntualità con cui si riprendeva il cammino dopo ogni sosta. Silenziosamente e in modo composto tutti occupavano in brevissimo tempo la loro precisa posizione dietro al Cunfarun, lo stendardo che durante il percorso precede il lunghissimo serpentone dei pellegrini.
Lungo i sentieri dei boschi o le strade asfaltate l’eco continuo delle preghiere mia faceva pensare all’incessante susseguirsi di onde poderose. Con commozione costatavo la fede profonda di questo popolo ladino. Unici momenti per scambiare qualche parola le brevi soste, o alla sera nei vari alloggi. Sfruttando queste occasioni, ho cominciato ad avvicinare qualcuno della folla. Tra gli altri due ultraottantenni, Pire e Sisto, volti limpidi e occhi pieni di luce. Dal 1948 non sono mai mancati ad un pellegrinaggio. «Quest’anno, a dire il vero, abbiamo fatto un po’ più di fatica… ma fin quando abbiamo la forza continuiamo. Per noi sono momenti in cui ringraziare Dio di tutti i doni che ci ha dato nella vita».
Dopo di loro, ho famigliarizzato con Diego, Dennis e Michele, poco più che ventenni e un sorriso a trecentosessanta gradi. Sono stati spinti, hanno detto, dal desiderio di poter fare un’esperienza ecclesiale in un contesto così particolare e con generazioni diverse. Per due di loro era la seconda volta: erano ritornati invitando un amico a condividere la gioia che caratterizza questo percorso.
Per alcuni ragazzini, invece, poco più che dodicenni, accompagnati dal papà o da qualche parente, partecipare era quasi un gioco, una sfida nel misurarsi con un tragitto così lungo. Naturale che fosse così, data l’età; dai loro sguardi però coglievo qualcosa che sarebbe durato nel tempo.
E poi Isidoro, guida alpina: per lui la differenza rispetto a una semplice escursione consisteva nel fatto che qui si aggiungevano una motivazione spirituale e il fare un cammino del genere più per gli altri che per sé stessi, rappresentando chi non poteva partecipare o non stava bene: di qui la pace e la gioia sperimentate. E a proposito della figura del compagno cui si è legati per tutto il tempo del viaggio? Isidoro la vedeva come un’occasione per rafforzare il rapporto con un compaesano, come pure con altri con i quali la conoscenza si limitava ad un breve saluto. «Questi momenti di preghiera ma anche di festa creano quell’atmosfera per darci il coraggio di togliere certi rancori che a volte ristagnano fra di noi».
Carlo, 76 anni, al decimo pellegrinaggio, pur di partecipare si era tolto il gesso per un infortunio al ginocchio prima del tempo, verificandone poi la tenuta con l’aiuto di due bastoncini. Il coraggio non gli è certo mancato ed eccolo lì a esprimermi la propria gioia. Anche per Ivo di Pedraces, 42 anni e mio compagno di cammino, «queste sono le vere gioie, quelle che rimangono e nessuno ti può togliere». Dalla condivisione di una parte della nostra vita è nata una amicizia che penso durerà nel tempo.
Hansjörg partecipava “per ringraziare del dono della fede: è una cosa che sempre devo chiedere e rinnovare, con la quale trovo la forza di affrontare la vita quotidiana”.
Poco prima dell’arrivo a Sabiona, si sono uditi i primi rintocchi della campana. Quella che aspettava non era semplicemente una folla di curiosi che si accalcava alle transenne, senza partecipare emotivamente all’evento: lo si vedeva dagli occhi umidi di commozione di qualcuno, coinvolto dalla preghiera della quasi interminabile fila di uomini. All’arrivo, secondo un antico costume, la consegna a tutti di rametti di bosco che venivano infilati nei capelli o portati a casa negli zaini.
Il momento era solenne, e la potenza dei canti dentro e fuori l’abbazia tale da farli udire fino al paese di Chiusa e in tutta la valle. Era un grande grazie corale che si alzava verso il cielo.
A detta dei veterani, questo pellegrinaggio lascia anche in seguito tracce profonde, così intense e variegate sono le impressioni raccolte. Per molto tempo ci si sente “diversi”, come trasfigurati da un nuovo e particolare senso della vita. E questo avverto anch’io nello scrivere queste impressioni.