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martedì, ottobre 14, 2008

ALPINISMO AL FEMMINILE

Silvia Metzeltin
La palestra King Rock di Verona
Silvia e Gino Buscaini negli anni ottanta
Disegno a matita, eseguito per Silvia da Gino dopo la ripetizione della via Carlesso nel 1962 sulla Torre Trieste
Per ricordare l'incontro

Silvia Metzeltin, alpinista e scrittrice, tenace e libera, in parete e con la penna

Silvia Metzeltin, ovvero, l’alpinismo come filo conduttore della vita, come originale chiave di lettura dell’umana avventura. Per il valore delle ascensioni compiute e per i suoi contributi culturali è considerata una personalità di primo piano nell’alpinismo femminile mondiale. Ma è la sua visione della vita, il suo sguardo critico sul mondo, che l’età ha solo in parte addolcito, a renderla persona oltremodo affascinante. Minuto e scattante il fisico, mite e penetrante lo sguardo, colta ed eclettica la cultura, ruvido e tenace il carattere, dolce e sensibile l’animo, libero e laico il pensiero. Ti fissa negli occhi e stringe forte la tua mano: e pensi agli appigli serrati da quelle dita, pensi alle corde che quelle mani hanno tirato, alle 1.300 cime da lei raggiunte, sulle Dolomiti, nel Sahara, in Iran, in Perù, nell’Himalaya, in Alaska, in Giappone, in Patagonia… E pensi a agli articoli, alle guide (da Dolomiti. Il grande libro delle vie normali a Patagonia), ai racconti (Polvere nelle scarpe), vivi e frizzanti, usciti da quelle mani, dove le montagne sono sfondo vivo ai racconti di persone che abitano terre bellissime, ma difficili e dure come quelle della Patagonia.
Silvia nasce a Lugano, si laurea in geologia all’Università di Milano, dove fa esperienza di docenza e ricerca. Ma l’amore vero è l’alpinismo: un alpinismo di ricerca, di esplorazione, creativo, sempre rispettoso della gente e dei luoghi, vissuto da sola, prima, ed in coppia, poi, con l’inseparabile marito, Gino Buscaini, scomparso 6 anni fa. Insieme scrivono pagine memorabili, in parete e sui libri.
Ma, forse, prima ancora di tutto ciò, Silvia è un modello di riferimento, una maestra per le donne che riflettono sul significato della propria esistenza, una pioniera per quelle che amano le salite, la fatica, la sfida. “Amavo la montagna più di ogni altra cosa: ho iniziato ad arrampicare, negli anni ’60, soffrendo e combattendo la discriminazione d’essere donna. Anche con atteggiamenti aggressivi: non ho mai voluto pagare alcun pedaggio ed ho portato zaini di 50 chili per non essere considerata inferiore a nessuno. Ho visto altre come me ed ho cominciato a lottare perché noi donne potessimo non solo accedere all’università o indossare i pantaloni, ma anche non subire discriminazioni in montagna. La lotta non è ancora finita: ho partecipato anche ad una spedizione di sole donne in Himalaya ed al ritorno nessuno ci ha chiesto quale cima avevamo raggiunto, ma solo se avevamo litigato o no. No, non avevamo litigato. Ma certo le aspettative fra spedizioni al maschile e al femminile sono ancora molto diverse...”
Crede vi sia un modo diverso di fare alpinismo fra uomini e donne? “No! L’alpinismo propone qualcosa di molto individuale, dove ognuno cerca di esprimere ciò che è: prima di essere maschi e femmine siamo persone. Certo, in montagna, la forte selezione porta le donne a dare il meglio di sé: per questo mi sono sempre trovata meglio con altre donne, al di là dell’alpinismo di coppia con mio marito, che con altri uomini, perché queste donne erano più selezionate per sensibilità, saggezza, maturità. La complicità che trovo ancora oggi ad andare in montagna con loro non la trovo con gli uomini.”
A fare da cornice dell’incontro con Silvia è l’inaugurazione, a Verona, di King Rock, la più grande palestra d’arrampicata sportiva in Italia, un paradiso di pareti artificiali. Lontano dalla visione poetica dell’alpinismo? “No, anzi! L’arrampicata sportiva ha aperto l’alpinismo a molte donne, riducendo il divario con gli uomini in montagna. E poi apre orizzonti nuovi ed interessanti, sul piano del gioco, del movimento, della corporeità, un’esperienza che non finisce mai, nemmeno alla mia età. Sono rimasta la bambina di allora e sono grata all’alpinismo di avermi permesso di vivere quello che volevo vivere. Con Zarathustra io dico: se questa è stata la vita, bene, riviviamola ancora una volta. L’alpinismo ci ha dato di poter vivere del bello, con molta umiltà. E molta fortuna, perché tanti di noi vi hanno lasciato la vita.”
La montagna è ancora fucina di valori? “Sì, amicizia e solidarietà. Noi alpinisti classici siamo riusciti a conciliare la nostra libertà individuale, e noi siamo tutti molto egocentrici, con la solidarietà. Il rapporto di amicizia e di responsabilità per il compagno è fondamentale: andando in giro con un'altra ragazza (così definisce una coetanea… n.d.r.) mi sento responsabile della sua felicità, della sua realizzazione, prima ancora che della sua vita. Questo è possibile se andiamo per libera scelta: l’avvento delle sponsorizzazione obbliga a realizzare un’impresa, a tutti i costi, e genera cose vergognose, come lasciare solo, in parete, un proprio compagno.”
Dalla passione per la montagna ad una profonda riflessione culturale: come è avvenuto? “L’alpinismo è passione di una vita intera. Allargare gli orizzonti è una maturazione che io e Gino abbiamo vissuto frequentando, con 23 spedizioni, la Patagonia. Siamo passati dall’apprezzamento per quelle montagne magnifiche ad altri aspetti: il primo viaggio in nave, insieme con gli emigranti; le difficili condizioni di vita di quella gente; l’ipocrisia di vivere noi la massima nostra libertà in un paese schiacciato dalla dittatura... Ci siamo aperti ad un altro mondo: lì il nostro alpinismo ha preso un altro significato.”

Paolo Crepaz