Cerca nel blog

Powered By Blogger

venerdì, luglio 18, 2008

La montagna chiama



È sepolto per sempre nei ghiacci del Nanga Parbat, un 8.000 del Kashmir. Karl Unterkircher era un uomo che cercava sempre, nella vita, la vetta più alta.

È il 13. Luglio. Sono sdraiato nella mia tenda. Cerco di addormentarmi, ma la mia mente è confusa da tante domande. I miei pensieri vanno sempre al Nanga Parbat, alla parete Rakhiot. Le scariche di ghiaccio mi procurano paura. La responsabilità mi procura ansia, pensando frequentemente a casa, ai miei cari. Siamo nati e un giorno moriremo. In mezzo c’è la vita. Io la chiamo il mistero, del quale nessuno di noi ha la chiave. Siamo nelle mani di Dio: se ci chiama dobbiamo andare. Sono cosciente che l’opinione pubblica non è del mio parere, poiché se veramente non dovessimo più ritornare, sarebbero in tanti a dire: “Cosa sono andati a cercare là? Ma chi glielo ha fatto fare?”. Una sola cosa è certa, chi non vive la montagna, non lo saprà mai! La montagna chiama!”

Sono le ultime parole scritte da un uomo che, nella vita, cercava vie esclusive. I sognatori e i bambini sanno dare forma alle nuvole. Karl era uno di quegli alpinisti che sanno intuire, dove altri non vedono nulla, disegni ed ombre persi tra le pieghe d'immobili rocce e ne fanno la traccia per la loro impresa. Lui, infatti, entrato nella storia dell’alpinismo per aver scalato, senza ossigeno, Everest e K2 in meno di due mesi, non cercava i record, non aveva alcun interesse a collezionare tutti gli 8.000. Le sue imprese sono state altre. Unterkircher amava sbrogliare i “problemi” non ancora risolti delle grandi pareti del mondo: il versante nord del Genyen, 6240 metri, in Cina; lo spigolo sud del Jasemba, 7350 metri, al confine tra Nepal e Tibet; la parete nord del Gasherbrum II (8035 metri). Tutte vie dove nessuno prima era mai riuscito. Anche per la sua ultima impresa aveva scelto un percorso inviolato: del già infernale Nanga Parbat, la “montagna assassina” (duecento hanno tentato di scalarla, oltre sessanta non sono tornati) aveva adocchiato da tempo la terribile parete Rakhiot. Una slavina, mentre guidava i compagni, Nones e Kehrer, lo ha sepolto lì, per sempre, in un crepaccio.

“Ogni tanto parlavamo della morte. Lui sentiva che una volta o l’altra sarebbe rimasto sulle montagne. Almeno so che adesso è nel posto che amava più di tutti”. Silke, la moglie di Karl, è una donna minuta, semplice, forte. Crescerà i figli, Alex, Miriam e Marco di 6, 3 e 1 anno, spiegando loro che il loro papà è forte, che ha già raggiunto la vetta, che è volato in cielo, che sarà loro vicino come quando li portava in braccio e raccontava loro le favole per addormentarli. Gli pesava infinitamente stare lontano da casa. Un paio di mesi fa, al congresso di Sportmeet, incantando tutti con le sue parole e le sue immagini, spiegava: ”Nell’arrampicare sperimento spesso la mia felicità: credo che tutto nella vita abbia un senso, anche se a volte mi chiedo perché sono lì, chi me lo fa fare. Ma poi, una volta tornato a casa, dopo due settimane sono già lì a pensare quale sarà la prossima avventura.”

Amava la natura: camminando, sciando, arrampicando riusciva a sentirsene parte. Cercava ogni volta di capire sempre meglio quale fosse il suo posto in quel mosaico misterioso ed affascinante. Era esperto e prudente, sempre pronto ad imparare. Da tutto e da tutti. Con me si lamentava di non saper comunicare: chissà se lo pensava davvero. Non erano le parole a farlo un maestro del “dire qualcosa”, ma i suoi silenzi, il suo continuo interrogarsi e mettersi in discussione, la sua profonda vita interiore che colpiva chiunque lo incontrasse. Karl era un uomo che, nella vita, cercava la vetta più alta. E di questa sua ricerca ti faceva partecipe, ti coinvolgeva, ti trasmetteva l’inquietudine e la speranza, ti accendeva in cuore sempre nuove frontiere. C’eravamo lasciati così: “Al ritorno dal prossimo 8.000 ti vengo a cercare: in Tibet ho visto tanta povertà, tanti bambini che non hanno nulla. Dobbiamo fare un progetto per loro.”

Prima di una delle ultime spedizioni era andato al Monte Kailash, la montagna sacra, in un monastero vicino al Lago Manasaravar: “Un’esperienza bellissima che ho potuto condividere con amici: ho acceso una candela pregando alle spedizioni prossime.
Ancora una volta mi sono chiesto il perché di dover andare lí: se tutto, nella vita, ha una spiegazione spero proprio di trovarla, prima o poi. C’è una frase del Dalai Lama che mi guida: “Vivere in modo giusto e sereno é possibile solamente se siamo consapevoli, che prima o poi moriremo.””

Paolo Crepaz

Dall’alpinismo internazionale, Karl Unterkircher, era considerato il più forte ed il più coraggioso per le sue imprese (www.karlunterkircher.com), ma da tutti era considerato un uomo buono, semplice, generoso.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Un dispiacere enorme,un vuoto incolmabile.Sono profondamente toccato.Condivido quanto scritto nel post.Penso che i veri alpinisti,quelli genuini non salgano per il puro piacere di provare emozioni forti come in certi sport estremi.Li equiparo ad esploratori con la voglia di scoprire,come gli antichi navigatori,Colombo,Magellano ecc.e quelli di oggi sempre in cerca di nuove verità;e non penso assolutamente che siano persone che disprezzino la vita.
Un caro saluto.
Master

Marie Claire ha detto...

ciao Dono,
ti sto aspettando al varco x vedere le foto di Folgarida!
Intanto, gitando x blog mi sono imbattuta in una blogger che ne fa di strada a piedi du per le vette...
vai a vedere qui, http://jaelle.splinder.com/, se ti va...
a presto e ben tornato!