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lunedì, giugno 19, 2006

Prima uomo, poi alpinista


Le sfide di uno scalatore

Prima uomo, poi alpinista

di Domenico Salmaso

«I veri Everest sono qui, nella vita di tutti i giorni» Intervista a Simone Moro, uno spirito che è connubio tra cuore e testa.

Incontrare un alpinista del calibro di Simone Moro, per uno appassionato di montagna come me, non poteva che risultare estremamente emozionante. Pensavo infatti che mi sarei trovato di fronte ad un colosso himalayano difficile da scalfire. Subito invece, da come ci hanno presentati, mi sono trovato a mio agio con una persona di una semplicità e disponibilità uniche. Si aveva la sensazione che il cuore si spalancasse di fronte all’immenso del suo vivere. Dialogando, a poco a poco mi sentivo catapultato nel suo mondo fantastico dell’alta quota, dove roccia e ghiaccio la fanno da padroni, e che solo con un atteggiamento nobile come il suo ci si può permettere di avvicinare.
Nonostante momenti duri e drammatici vissuti con altri compagni in questi ambienti severi, Simone continua nella sua avventura di esplorazione.
Il primo aprile 2006 partirà per l’Himalaya per tentare una nuova via in solitaria, dove ancora una volta si misurerà con i suoi limiti. Si tratta della sua terza spedizione sul “Lhotse”, che con i suoi 8516 metri è la quarta montagna più alta della Terra, superata solo dall’Everest (8848 m), dal K2 (8611m.) e dal Kangchenjunga (8598 m).

Simone, hai detto: «Ho “peccato” scalando anche lungo le vie normali, ma ho capito da tempo che l’alpinismo vero viaggia con altri approcci fisici e mentali verso l’avventura verticale». Prova a spiegarci quali sono per te le dimensioni più vere dell’alpinismo.
«Le dimensioni vere dell’alpinismo sono quelle che hanno una componente esplorativa. Se io percorro una via già aperta da qualcuno o già ripetuta da più persone, sicuramente in quel percorso non c’è esplorazione ma una clonazione di un percorso. Diciamo che nella mia fase formativa ho imparato ad accorgermi dei miei errori, rendendomi conto che mi trovavo “in fila” nel modo di pensare e di fare alpinismo e ho capito che non era quanto cercavo. Cercavo, infatti, lungo un itinerario esplorativo una parte di me che conoscevo e un’altra parte che non conoscevo. Allora basta con le vie normali, basta con le vie dei primi salitori: voglio fare una via mia, dove poter trovare con la mia fantasia e la mia capacità le linee ipotetiche per scalare una montagna. È in questo senso che intendo l’esplorazione».

Nel 2004 hai vinto due pareti nord estreme in stile alpinistico: la nord del Baruntse e la nord dell’Annapurna: prova a spiegarci il valore particolare che hanno per te queste pareti così difficili.
«Sono molto diverse: una cosa è un 8000 Annapurna e un’altra è un 7000 il Baruntze. Pur essendo un 7000, l’ho voluto tentare particolarmente in quell’anno. È una montagna che sta esattamente di fronte all’Everest e al Lhotse, che sono le vette più conosciute e viste. Ed è curioso come tutti gli alpinisti, e anch’io, ci siamo innamorati della montagna più alta. È come la donna più bella: tutti se ne innamorano. E in questo caso ciò accade della parete più bella e più appariscente. Ce ne sono altre invece più piccole e meno belle dove però si possono trovare delle linee fantastiche di salita: una di queste è il Baruntze ancora vergine, che si è rivelato molto più difficile e interessante dell’E-ve-rest».

Shisha Pagma in invernale a gennaio 2005: un’altra sfida vinta. Quali sono le difficoltà e le soddisfazioni offerte dall’alpinismo invernale sugli ottomila?
«Innanzitutto bisogna dire che l’alpinismo invernale sugli 8000 rappresentava fino al 14 gennaio 2005 un’esclusiva dell’alpinismo polacco. Non c’è mai stato nessun alpinista, che non fosse un polacco, in grado di scalare una montagna di 8000 metri d’inverno. Neppure i grandi come Reinhold Messner, Kurt Diemberger, Walter Bonatti. Adesso c’è un bergamasco che, insieme con il compagno polacco Piotr Morawski, ha raggiunto sull’Himalaya in inverno la vetta del Shisha Pangma (8027 m).
«Le difficoltà dell’alpinismo invernale stanno nelle condizioni ambientali decisamente rigide. Se descrivo quel momento quando mi trovavo in cima c’erano 52 gradi sotto zero e 120 chilometri orari di vento. Quindi è un alpinismo dove la “soprav-vivenza” rappresenta una componen-te molto forte».

«È più facile perdere che trovare un amico in alta quota». Nell’im-maginario collettivo gli alpinisti degli ottomila sono descritti come personaggi solitari: che valore ha per te condividere con altri un avventura alpinistica?
«Devo sempre ricorrere a un paragone. È come l’amore: quando sei innamorato di qualcuno, hai voglia di gridarlo a tutti. Lo vuoi gridare a lei, lo vuoi gridare al mondo. E così è anche con l’alpinismo. Un alpinismo fatto sempre e solo in solitaria, secondo me, è un alpinismo che si priva di una componente che è quella delle gioie e della condivisione. È vero, d’altra parte, che ti mette ancora di più sul piedistallo, tanto è che ad aprile parto per fare una scalata in solitaria.
«L’alpinismo solitario è bello ed è il top del top, però, come dicevo, manca di quelle condivisioni; ecco perché a me Simone, non essendo un solitario ma una persona abbastanza solare, è sempre piaciuto condividere queste esperienze con qualcuno. Ciò non significa che sia andato sempre con spedizioni composte da tante persone. Di solito i miei compagni sono uno o due, massimo tre. Mi sembra una sfida più leale verso la montagna. A me gli assalti di gruppo non piacciono».

Sei diventato famoso per avere rinunciato alla cima del Lhotse per salvare un altro alpinista: che valore dai a quel gesto?
«È più facile essere dei bravi alpinisti che non essere bravi uomini. È la differenza tra maschio e uomo; essere maschio è una caratteristica del tuo sesso, essere uomo è un valore aggiunto. Si diventa uomini attraverso quelle che si chiamano tappe della saggezza, e per passare queste tappe in maniera naturale, senza montarti la testa, devi compiere un percorso educativo. Io ho avuto un papà e una mamma che mi hanno insegnato quali sono i valori della vita. Mi piace pensare che un alpinista ragioni sempre usando il suo senso civico e non solo le proprie ambizioni. Bisogna sempre fare un connubio tra il cuore e la testa. Talora i grandi alpinisti sono diventati tali, pur non avendo saputo essere grandi uomini. Perché i veri Everest sono qui, nella vita di tutti i giorni.
«L’Everest fisico è più facile da superare, è soltanto una montagna. Ce la faccio o non ce la faccio… Nella vita di tutti i giorni i problemi non sono “o ce la faccio o non ce la faccio”. Sono ancora più vincolanti. In quel momento sul Lhotse mi sono comportato come penso anche altri si sarebbero comportati».



BOX

Simone Moro è nato nel 1967. Guida alpina, atleta e istruttore federale, arrampica dall’età di 13 anni e oggi pratica tale attività a tempo pieno, realizzando spedizioni alpinistiche sulle grandi montagne della Terra: Himalaya, Karakorum, Ande, Patagonia, Antartide, Thien Shan, Pamir.
Il primo vero grande successo lo ha ottenuto con la salita al Lhotse (8516 m) nel 1994 in sole 13 ore effettive (17 totali), partendo da 6300 m di quota. Le più recenti realizzazioni alpinistiche sono le salite alle quattro montagne di oltre 7000 m della Russia in soli 33 giorni (record).
Nel 1996 ha conquistato il Fitz Roy (3441m) nella parete ovest lungo l’itinerario integrale della “Supercanaleta”. Nello stesso anno sale senza ossigeno gli 8008 m dello Shisha Pangma Sud.
Le ultime più eclatanti salite sono state la doppia salita all’Everest nel 2000 e nel 2002, la salita al Cho Oyu (8201 m) e il raggiungimento della cima del Vinson (4895 m) in Antartide, sempre nel 2002. Il 2003 è iniziato con la salita al Kilimangiaro (5895 m) ed il conseguimento di importanti riconoscimenti come il Fairplay Pierre de Cubertin tropy a Parigi dall’Unesco e le medaglie d’oro al valor civile dal presidente della Repubblica Ciampi e dalla regione Lombardia. Simone ha anche conseguito il prestigioso David Sowles Award dall’American Alpine Club. Tutti questi riconoscimenti di valore mondiale sono stati ricevuti per il salvataggio estremo che Simone Moro ha operato da solo, senza ossigeno e a rischio della sua stessa vita, per cercare e trarre in salvo l’alpinista inglese infortunato Tom Moores.

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