Ho consumato i tuoi giorni, e non so se tutto il tempo che mi hai dato sia stato utilizzato in modo adeguato verso le persone e le cose che mi hai posto accanto. Facendomi forte del detto che con l'anno nuovo il vecchio è bruciato, mi pongo dinanzi al tuo fratello più giovane con nuovo vigore. Con questa convinzione e con la certezza che si può sempre migliorare, il 2007 mi darà tantissime occasioni per poter arrivare alla fine con migliori risultati. Essere ottimisti non guasta.
domenica, dicembre 31, 2006
lunedì, dicembre 18, 2006
IL CENTRO DEL NATALE
Ritorna puntuale anche quest’anno a ricordarci che lui è presente nella storia. Continua a bussare alla nostra porta da lungo tempo e poche sono ancora le persone che gli offrono un alloggio, qualcuno che lo accolga per dargli la possibilità di donarci il suo dono. Come sarebbe bello se in questo Natale tutti potessero preparare una culla dove lui si possa coricare con noi. Ho intrapreso con una certa amarezza, la notizia, che da alcuni scaffali di supermercati sia stata sloggiata la statuina del bambinello per lasciare posto ad altri oggetti di maggior consumo. Non c’è da stupirsi se in questa società un personaggio così sia scansato. In ogni modo vadano gli avvenimenti in questo mondo; il bambinello continuerà a presentarsi alla nostra porta chiedendoci di essere un amico con cui camminare nei sentieri della vita.
Un augurio di Buon Natale a tutti
Un augurio di Buon Natale a tutti
mercoledì, dicembre 13, 2006
Senzazioni
Cammino respirando profondamente, lascio gli occhi e il pensiero liberi alle loro fantasie. Ogni momento è vissuto senza fretta, lo voglio godere pienamente. Giunto a me da un tempo lontano, con attenzione mi presto a consumarlo. Percepisco la sacralità che in esso si raccoglie, e nel silenzio mi pongo dinanzi. Contemplo tutte le bellezze che la natura mi offre in quell’istante, ne ammiro i suoi elementi, diversi e unici, ognuno con il proprio fascino. In questa frazione é come se, con una lenta dissolvenza, fossi trascinato in un mondo fantastico, dove immediato è il rapporto fra me e questa parte dell’universo. Il meraviglioso ambiente mi ha avvolto, dal cuore, una voce forte s’innalza per dar lode al suo Creatore.
mercoledì, dicembre 06, 2006
Spirito Montano
"La vita vissuta è solo quella conquistata. Perciò la vita è difficile e deve essere difficile, come un'ascensione che non può essere bella se non è anche difficile. Ove non c'è difficoltà, non c'è lotta; ove non c'è lotta non c'è conquista.
Perciò la vita è lotta."
Ettore Castiglioni
"Il mio zaino non è solo carico di materiali e di viveri:
dentro vi sono la mia educazione,
i miei affetti, i miei ricordi, il mio carattere, la mia solitudine.
In montagna non porto il meglio di me stesso:
porto tutto me stesso, nel bene e nel male."
Renato Casarotto
Riflettendo su questi brevi pensieri di due grandi alpinisti, mi sono detto: come sono vere queste parole. Andar per monti sicuramente ti rinforza la volontà e lo spirito, puoi misurarti con te stesso senza poter mentire. La gioia intima di assaporare la dura conquista della vetta. Rispettarla nelle sue avversità con il coraggio di ritirarsi umilmente perché senti che ti respinge, accettare che forse non è ancora giunto il tempo di avvicinarti come tu vorresti.
La montagna è una scuola di vita, ti sa comunicare se sei attento quello che la natura di vuol insegnare. Ogni elemento del creato ha qualche cosa da dirci e da condividere con noi.
lunedì, dicembre 04, 2006
Il gesto verticale diventa danza
Fusione, arrampicata e danza diventano complici.
Lo stile ideale del free-climber è quello di vincere la forza di gravità con grazia, muoversi sulla roccia danzando, cercare l'equilibrio, inventare un movimento, liberare la fantasia, controllare e fare esplodere la potenza.
L'arrampicata è una disciplina complessa caratterizzata sia da un aspetto fisico motorio che da una importante componente psicologica.
L'arrampicata può comunque essere definita come la salita di un ostacolo, sia esso una parete rocciosa, naturale espressione e terreno preferito su cui l'arrampicata si è sviluppata in tutte le sue forme, sia esso un sasso, o un pannello artificiale.
L'arrampicata non è uno sport della Domenica, senza un impegno infrasettimanale, senza un costante allenamento, i risultati non vengono certamente. Una cosa sicura è che nell'arrampicata si migliora con le sole proprie forze, niente scaturisce per caso: niente è regalato, niente improvvisato. E' uno sport molto individuale che viene però praticato sempre in compagnia e permette perciò di socializzare. E' uno sport aperto a tutti e non è riservato ai rambo e ai culturisti; anzi! I migliori climbers sono longilinei e leggeri e anche molte ragazze praticano l'arrampicata. Contrariamente a quanto si pensa l'esperienza e la tecnica sono spesso più importanti della forza pura. L'arrampicata è una attività che richiede fiducia totale nel compagno di cordata, nella attrezzatura tecnica e nei propri mezzi. In montagna non si va per farsi male, ma per godere un ambiente incredibile che puoi vivere anche con una semplice camminata ma, che arrampicando, apprezzi da un punto di osservazione speciale. A volte capita di non crede ai propri occhi di fronte alla meraviglia della natura. Ci si sente dei privilegiati a vivere queste emozioni e al ritorno alla normalità, nella routine delle città, dentro senti di esserti arricchito e provi ad esternarlo anche se il più delle volte sai di non essere capito.
giovedì, novembre 30, 2006
Scalare sui massi, ovvero Bouldering
Sin dagli anni ’70, i massi erratici, trasportati a valle e “sparpagliati” dall’ultima glaciazione, sono stati un terreno di allenamento per arrampicatori ed alpinisti.
Che cos’è il bouldering? «È una delle specialità dell’arrampicata sportiva . Si pratica su blocchi rocciosi alti solo qualche metro. Gli appigli sono, a volte, così minuscoli che persino le variazioni meteorologiche, un po’ di umidità in più o in meno, possono modificare la possibile presa».
È una disciplina in cui conta la forza esplosiva, la tecnica e la coordinazione. Sui massi non ci sono chiodi e la sicurezza è offerta dai materassi speciali (crash-pad) che parano la caduta. Per essere un buon boulder occorre far lavorare il cervello: è fondamentale osservare, valutare, ragionare su un percorso. Tecnicamente si chiamano “problemi da risolvere”.
I blocchi più famosi sono quelli della foresta di Fontainbleau, vicino a Parigi. In Italia, specie nelle zone alpine a formazione calcarea, nelle vicinanze di qualche picco è facile trovare grossi massi rocciosi rimasti lì dopo un crollo avvenuto in epoca lontana. Su questi massi un occhio attento può, a volte, scorgere piccole tracce di polvere bianca (non è antrace, è magnesite, che aiuta la presa delle dita).
L’arrampicata sportiva è oggi una vera e propria disciplina sportiva. È nata su rocce naturali, su pareti di fondovalle, spesso lisce e ostili al primo sguardo, trascurate dagli alpinisti, ma valorizzate e attrezzate dai climbers gli arrampicatori.
Se l’alpinismo pone la conquista della vetta come fine unico, con la conseguente accettazione dell’imponderabile e dei fattori di rischio oggettivi, l’arrampicatore si dedica, eliminata ogni componente di pericolo, ad un’affascinante ed atletica danza verticale, estrema e pulita.
Un importante passo in avanti nello svincolare questa pratica sportiva dall’ambiente montano ed alpino, è stata la rapida diffusione di strutture che riproducono al coperto le caratteristiche delle pareti rocciose. Questi muri o grotte artificiali allestiti in palestre e centri sportivi, hanno fatto divenire l’arrampicata un’attività metropolitana, ludica, sportiva ed agonistica, in totale sicurezza, praticabile tutto l’anno, permettendo un allenamento continuativo che ha innalzato il livello tecnico atletico dei partecipanti ed ha esteso il campo degli appassionati.
Molti si dedicano all’alpinismo classico o al free-climbing in estate, ma le pareti della palestra rimangono un appuntamento fisso. Dalla conquista della vetta siamo passati al gioco.
Il bouldering è un’ulteriore estremizzazione dell’arrampicata: niente corda, quattro, cinque movimenti molto difficili, al limite della sfida con la forza di gravità. La facile accessibilità all’arrampicata in palestra, la convivialità che si vive in questo ambiente, la sfida per superare un passaggio possono rubare anche tutta una serata.
Può sembrare al limite del patologico, ma in realtà quando si comincia l’arrampicare sui blocchi la passione ti travolge: è un gesto sportivo veloce, dinamico, senza necessità di imbraco, di un compagno che ti aiuti. La ricerca estrema del passaggio più difficile ed il continuo confronto con altri atleti è stimolante e coinvolgente.
Chi inizia l’arrampicata sportiva si trova dopo qualche tempo a personalizzare la propria passione in una disciplina piuttosto che in un'altra: qualcuno rimane legato all’alpinismo tradizionale, qualcuno sceglie il bouldering, altri, molti, scelgono la falesia, o la parete artificiale, sulla quale si praticano le diverse gare: di difficoltà, di velocità, il duello, il lavorato.
mercoledì, novembre 29, 2006
Una culla vuota, per fortuna
La “Culla per la vita” vuol rappre-sentare a Firenze un’alternativa concreta agli infanticidi e all’abbandono dei bambini nei cassonetti.
È un problema che non accenna a diminuire e che, secondo i dati del mi-nistero della Pari opportunità, riguarda in Italia circa 300 bambini all'anno ab-bandonati – quelli che vengono segnalati – «vivi o morti». Nonostante sia in vigore il Dpr 396 del 2000 che consente di non menzionare il nome della madre nel certificato di nascita, garantendone il totale anonimato e permettendo un avvio più rapido delle pratiche per l’adozione del neonato, sono ancora tante le donne clandestine, emarginate, escluse dai canali di comunicazione, che si trovano sole di fronte a una circostanza tanto difficile come una gravidanza indesiderata.
Proprio per questo il Movimento per la Vita, associazione fondata dall’on. Carlo Casini, ha dato vita a quella che è la culla; segno importante per la città di Firenze, che nel 1445, era di esempio in tutta Europa, grazie proprio all’inaugurazione della “Rota” dell’Istituto Degl’Innocenti. I bambini venivano qui abbandonati in una specie di pila dell'acqua santa, poi sostituita, nella seconda metà del XVII secolo, da una ruota girevole in pietra rimasta in uso fino al 1875. La culla di Firenze non è la prima e unica in Italia, ma ne esistono altre nove, tutte pronte ad accogliere qualcuno.
Al momento in nessuna culla è stato lasciato un bambino e questo, quindi, potrebbe apparire come un fallimento. «Ma non è cosi – commenta Casini –, la Culla per la vita ha portato i suoi frutti». Ed è proprio vero, la culla ha avuto i suoi risultati e questo proprio nella città di Firenze. Una donna incinta, di nazionalità rumena, passando davanti alla culla, in piazza San Remigio, si è accorta dell’iniziativa e si è rivolta al Movimento per la Vita per essere assistita ed aiutata a dare alla luce il suo piccolo. Adesso il bambino è nato e sta bene.
La culla non è soltanto di uso pratico ma vuol rappresentare, nella forma più concreta, uno stimolo a sensibilizzare l’opinione collettiva alla salvaguardia della vita. Da sottolineare - uno degli strumenti fondamentali di cui dispone l’associazione – il numero verde Sos Vita 800-813000, gratuito da qualunque telefono in tutta Italia e attivo 24 ore su 24, a cui rispondono operatori preparati e dotati di una consolidata esperienza. «Un altro problema – spiega Casini – è che in Italia non ci sono bambini da adottare. Spesso sono cercato da coppie di persone valide che vogliono adottare un bambino, ma la risposta che dò e spesso negativa visto che non abbiamo bambini. Spesso vengono colpevolizzate le leggi per le adozioni che sembrano essere lente e complesse ma in realtà le leggi sono molto veloci, in particolar modo per quei bambini che vivono in ambienti diseducativi».
Inoltre il ricorrere all’aborto, sembra, in questi ultimi tempi, diventato il si-stema migliore per sopperire a problemi di gravidanze non desiderate. Gli aborti “terapeutici” hanno superato i tre milioni e mezzo, con una media di poco inferiore ai duecentomila all’anno e un rapporto annuo che è di un aborto ogni tre o quattro nati vivi. Dati, questi, e fatti, che spesso rimangono all’oscuro.
lunedì, novembre 27, 2006
Aiuto! Stanno scomparendo i ghiacciai
Non è una novità. Ma il grido d'allarme per il rischio di scomparsa
definitiva dei ghiacciai alpini, lanciato da chi ha trascorso le ferie in
alta quota in Valle d'Aosta o in Svizzera, non è suonato mai tanto forte
come quest'anno. Come mai, ci si domanda, dopo un inverno così ricco
di neve ed un'estate così piovosa, con temperature agostane così
basse, il fenomeno dello scioglimento dei ghiacci non solo non si è
arrestato, ma sembra avere subìto un'ulteriore accelerazione?
In attesa di riscontri scientifici seri, ci limitiamo a costatare i fatti,
preoccupati non solo per la perdita delle nevi non più “eterne” che
coronavano le nostre Alpi, ma anche per l’acqua che già sta mancando
alle nostre pianure, sempre meno fertili.
Nella foto il ghiacciaio del Gorner che dalle vette del Rosa scende
verso Zermatt in Svizzera, ridotto alla metà di quella immensa colata
di ghiaccio che la nostra stessa generazione aveva conosciuto.
venerdì, novembre 10, 2006
La << GOCCIA>> di Paola Siani
Riporto questa esperienza perché ognuno di noi può essere nel suo piccolo una “goccia”, che unita a tante altre “dissetano” molti nostri fratelli i quali hanno il diritto del nostro aiuto.
“Perché il male trionfi, basta che i buoni non facciano niente”, Raoul Follerau.
”Farsi uno con tutti”, l’Ideale dell’Unità: Chiara Lubich.
Queste parole si sono scolpite nella mente come un marchio infuocato, dandomi una spinta nel mio vivere quotidiano. Nella sala operatoria dell’ospedale in cui lavoro, riscopro la concretezza dell’amore di un gigante della carità come San Camillo De Lellis, reso visibile con le sue opere accanto ai più deboli, in ogni angolo della terra.
In seguito l’incontro con una giovane religiosa venuta dal Burkina Faso. E’ incaricata di guidare una scuola di formazione di molte giovanette. Dà loro una preparazione per la vita anche professionalmente, la donna in Africa va aiutata a risorgere.
Circostanze straordinarie, ma non del tutto casuali, mi spingono al mio primo viaggio in Africa. Al “Center Menager Feminin”.
Constato con i miei occhi questa gioventù, così piena di vita, di calore, di colori, che non potrò mai dimenticare. Sentendomi come una loro mamma, mi esprimono la necessità di avere nella scuola nuove macchine da cucire e telai per la tessitura a mano.
Mi sono sentita grata della fiducia che tutte loro hanno riposto nella mia persona, ma al tempo stesso ho provato un grande dolore per l’impotenza di non essere in grado di aiutarle nella loro richiesta.
Cosa potevo fare io da sola? Dove avrei potuto reperire la somma necessaria per l’acquisto delle macchine da cucire per queste fanciulle che sono il futuro di quest’Africa splendida?
Ne parlo con gli amici. In un anno di lavoro, nel silenzio dei giorni che seguono, mi si aprono strade impensabili, tante, tante storie d’amore meravigliose.
Al “Center Menager Feminin” sono arrivate 25 macchine da cucire e 5 telai nuovi. Si era aperta una breccia che fa sperare, la condivisione è possibile è stata l’occasione per parlare con la gente dell’Africa in un modo nuovo dei suoi problemi.
L’Africa ha bisogno di risorgere anche appoggiando questi micro-progetti: se aspettiamo di vedere realizzati i grandi progetti.
L’Africa non risorgerà mai, ha bisogno di essere amata subito, nel concreto. L’Africa non è lontana da noi, abbiamo sotto i nostri occhi lo sguardo degli Africani che vivono nelle nostre città: sembrano vuoti perché in quegli occhi non si riflette più la loro Africa, ma manca loro la terra, il cielo, il sole.
Dobbiamo sentirci in prima linea in questa condivisione, noi tutti che, pur vivendo nel nostro vacillante e precario benessere, mettiamo ogni giorno sulla nostra tavola il pane quotidiano. Con l’esperienza vissuta in Burkina Faso sono stata contagiata da un male incurabile, il mal d’Africa.
Quando pensavo al mal d’Africa, pensavo a un sentimento nostalgico che resta dentro di noi per una cosa bella, oggi posso dire che è qualcosa di più grande.
Nel rispondere a quella chiamata così forte, ma non certo improvvisa, mi sono trovata letteralmente spiazzata dalle condizioni di indigenza in cui versano quelle popolazioni, soprattutto i bambini.
Tanti bambini, ti guardano, ti salutano, ti sorridono, sono tutti bellissimi. Guardo i loro visini: sono senza emozioni come quelle degli uomini che hanno già vissuto, perché conoscono già le ingiustizie del mondo.
Davanti a quella porzione di umanità così fortemente provata, mi sono sentita stimolata a lavorare con le missionarie camilliane che operano lì.
Loro mi presentano l’urgenza di tanti bambini che hanno bisogno di aiuto. Ne parlo con parenti, amici e vicini di casa i quali rispondono con immediatezza a questo progetto di così grande solidarietà. Le adozioni a distanza via via si allargano a macchia d’olio.
Ben presto mi rendo conto anche di un’altra cruda realtà, la realtà di tanti, tanti bambini con gravi patologie che non trovano soluzioni possibili lì nel loro paese. In Africa chi nasce storpio, rimane storpio.
Mi ritrovo tra le braccia il piccolo Gastien, vispo e pieno di vita, di tre mesi, nato con una grave malformazione al braccino destro, quasi solo un moncherino, tutto rattrappito verso la spalla. La decisione è immediata, dopo una lunga e penosa trafila tra medici, ospedali e permessi e provvidenza, Gastien è a casa nostra con la sua giovane mamma, resta per 18 mesi, subirà 6 interventi e riacquista una buona funzionalità del suo braccino.
Siamo tornati a trovarlo a Ouagaoudougu nella casetta dove vive con i suoi genitori: gioca, va all’asilo, in bicicletta e, indicando con la manina in alto verso il cielo, chiede alla mamma di prendere l’“avion” per andare a trovare nonna Paola e nonno Oreste.
Si presentano altre situazioni, una bambina è gravemente ustionata perché cade inciampando nella lampada a petrolio nella sua capanna e ne resta fortemente deturpata. L’altra piccolina nasce con la gambina ritorta all’indietro, non potrà camminare se non l’aiutiamo: anche lei ora è qui!
Nella ricerca di un aiuto e di una garanzia ad una continuità a sostegno di questi progetti umanitari, che non avrei certo potuto continuare a sostenere da sola, incontro gli amici di “Nessun luogo è lontano”, associazione no profit già da tempo impegnata socialmente per i problemi dell’immigrazione; in particolare mi colpisce la loro campagna umanitaria di accoglienza per quei bambini con gravi patologie che non possono essere curate nei loro paesi di origine.
E’ stato fondamentale: ci siamo riscoperti intenti comuni, che corrispondono al nostro progetto d’amore, a sostegno dei più deboli.
Si inserisce così il nuovo progetto per le adozioni a distanza: l’AIDS sta falcidiando tante famiglie e gli orfani sono tanti. Nasce così l’apporto de “LA GOCCIA”: la nostra piccola goccia al momento dà a 160 bambini in Africa la possibilità di riacquistare quella dignità dovuta a ogni essere umano che viene al mondo.
La pronta adesione a questo progetto di solidarietà di 160 famiglie in Europa, che hanno apportato con la loro adesione un ponte d’amore. Ci auguriamo solo che cresca, che si raddoppi, quadruplichi ecc…..mi rendo conto, è solo una goccia, ma tante gocce fanno un mare di bene.
Nell’intimo della propria coscienza, ogni uomo sente quella voce è una legge che non è lui a darsi. Possiamo opporvi resistenza, possiamo metterla a tacere, ma quella voce rimane, a volte la soffochiamo, non si tratta di cattiva volontà, solo non riusciamo a distinguerla: soffocati dai nostri progetti non riusciamo ad ascoltare chi ci passa accanto e ha bisogno di noi.
L’Africa chiede soprattutto giustizia, non la solita beneficenza di noi “ricchi Epuloni” è una ricchezza di culture di cui noi occidentali ignoriamo completamente l’esistenza.
Se muore una mamma e lascia orfani i suoi tre figli, la mamma della casetta accanto li prende insieme ai suoi, l’anziano è al centro della famiglia, non emarginato.
Da noi è la stessa cosa?
Ecco cos’è per me il mal d’Africa: voglia di condividere, finchè avrò vita e un briciolo di forze, voglio tornarci. E’ sotto i nostri occhi oggi più che mai l’inutilità di tutte le guerre: la condivisione di tutti i beni della terra è l’unica via possibile per arrivare a quella fratellanza universale che tutti noi ci auspichiamo.
Solo con la cultura del dare, della condivisione, consegneremo un mondo unito alle generazioni che ci seguiranno.
Paola Siani cell.3398274101
piccoloprincipe@nessunluogoelontano.it
associazione@nessunluogoelontano.it
www.nessunluogoelontano.it
“Perché il male trionfi, basta che i buoni non facciano niente”, Raoul Follerau.
”Farsi uno con tutti”, l’Ideale dell’Unità: Chiara Lubich.
Queste parole si sono scolpite nella mente come un marchio infuocato, dandomi una spinta nel mio vivere quotidiano. Nella sala operatoria dell’ospedale in cui lavoro, riscopro la concretezza dell’amore di un gigante della carità come San Camillo De Lellis, reso visibile con le sue opere accanto ai più deboli, in ogni angolo della terra.
In seguito l’incontro con una giovane religiosa venuta dal Burkina Faso. E’ incaricata di guidare una scuola di formazione di molte giovanette. Dà loro una preparazione per la vita anche professionalmente, la donna in Africa va aiutata a risorgere.
Circostanze straordinarie, ma non del tutto casuali, mi spingono al mio primo viaggio in Africa. Al “Center Menager Feminin”.
Constato con i miei occhi questa gioventù, così piena di vita, di calore, di colori, che non potrò mai dimenticare. Sentendomi come una loro mamma, mi esprimono la necessità di avere nella scuola nuove macchine da cucire e telai per la tessitura a mano.
Mi sono sentita grata della fiducia che tutte loro hanno riposto nella mia persona, ma al tempo stesso ho provato un grande dolore per l’impotenza di non essere in grado di aiutarle nella loro richiesta.
Cosa potevo fare io da sola? Dove avrei potuto reperire la somma necessaria per l’acquisto delle macchine da cucire per queste fanciulle che sono il futuro di quest’Africa splendida?
Ne parlo con gli amici. In un anno di lavoro, nel silenzio dei giorni che seguono, mi si aprono strade impensabili, tante, tante storie d’amore meravigliose.
Al “Center Menager Feminin” sono arrivate 25 macchine da cucire e 5 telai nuovi. Si era aperta una breccia che fa sperare, la condivisione è possibile è stata l’occasione per parlare con la gente dell’Africa in un modo nuovo dei suoi problemi.
L’Africa ha bisogno di risorgere anche appoggiando questi micro-progetti: se aspettiamo di vedere realizzati i grandi progetti.
L’Africa non risorgerà mai, ha bisogno di essere amata subito, nel concreto. L’Africa non è lontana da noi, abbiamo sotto i nostri occhi lo sguardo degli Africani che vivono nelle nostre città: sembrano vuoti perché in quegli occhi non si riflette più la loro Africa, ma manca loro la terra, il cielo, il sole.
Dobbiamo sentirci in prima linea in questa condivisione, noi tutti che, pur vivendo nel nostro vacillante e precario benessere, mettiamo ogni giorno sulla nostra tavola il pane quotidiano. Con l’esperienza vissuta in Burkina Faso sono stata contagiata da un male incurabile, il mal d’Africa.
Quando pensavo al mal d’Africa, pensavo a un sentimento nostalgico che resta dentro di noi per una cosa bella, oggi posso dire che è qualcosa di più grande.
Nel rispondere a quella chiamata così forte, ma non certo improvvisa, mi sono trovata letteralmente spiazzata dalle condizioni di indigenza in cui versano quelle popolazioni, soprattutto i bambini.
Tanti bambini, ti guardano, ti salutano, ti sorridono, sono tutti bellissimi. Guardo i loro visini: sono senza emozioni come quelle degli uomini che hanno già vissuto, perché conoscono già le ingiustizie del mondo.
Davanti a quella porzione di umanità così fortemente provata, mi sono sentita stimolata a lavorare con le missionarie camilliane che operano lì.
Loro mi presentano l’urgenza di tanti bambini che hanno bisogno di aiuto. Ne parlo con parenti, amici e vicini di casa i quali rispondono con immediatezza a questo progetto di così grande solidarietà. Le adozioni a distanza via via si allargano a macchia d’olio.
Ben presto mi rendo conto anche di un’altra cruda realtà, la realtà di tanti, tanti bambini con gravi patologie che non trovano soluzioni possibili lì nel loro paese. In Africa chi nasce storpio, rimane storpio.
Mi ritrovo tra le braccia il piccolo Gastien, vispo e pieno di vita, di tre mesi, nato con una grave malformazione al braccino destro, quasi solo un moncherino, tutto rattrappito verso la spalla. La decisione è immediata, dopo una lunga e penosa trafila tra medici, ospedali e permessi e provvidenza, Gastien è a casa nostra con la sua giovane mamma, resta per 18 mesi, subirà 6 interventi e riacquista una buona funzionalità del suo braccino.
Siamo tornati a trovarlo a Ouagaoudougu nella casetta dove vive con i suoi genitori: gioca, va all’asilo, in bicicletta e, indicando con la manina in alto verso il cielo, chiede alla mamma di prendere l’“avion” per andare a trovare nonna Paola e nonno Oreste.
Si presentano altre situazioni, una bambina è gravemente ustionata perché cade inciampando nella lampada a petrolio nella sua capanna e ne resta fortemente deturpata. L’altra piccolina nasce con la gambina ritorta all’indietro, non potrà camminare se non l’aiutiamo: anche lei ora è qui!
Nella ricerca di un aiuto e di una garanzia ad una continuità a sostegno di questi progetti umanitari, che non avrei certo potuto continuare a sostenere da sola, incontro gli amici di “Nessun luogo è lontano”, associazione no profit già da tempo impegnata socialmente per i problemi dell’immigrazione; in particolare mi colpisce la loro campagna umanitaria di accoglienza per quei bambini con gravi patologie che non possono essere curate nei loro paesi di origine.
E’ stato fondamentale: ci siamo riscoperti intenti comuni, che corrispondono al nostro progetto d’amore, a sostegno dei più deboli.
Si inserisce così il nuovo progetto per le adozioni a distanza: l’AIDS sta falcidiando tante famiglie e gli orfani sono tanti. Nasce così l’apporto de “LA GOCCIA”: la nostra piccola goccia al momento dà a 160 bambini in Africa la possibilità di riacquistare quella dignità dovuta a ogni essere umano che viene al mondo.
La pronta adesione a questo progetto di solidarietà di 160 famiglie in Europa, che hanno apportato con la loro adesione un ponte d’amore. Ci auguriamo solo che cresca, che si raddoppi, quadruplichi ecc…..mi rendo conto, è solo una goccia, ma tante gocce fanno un mare di bene.
Nell’intimo della propria coscienza, ogni uomo sente quella voce è una legge che non è lui a darsi. Possiamo opporvi resistenza, possiamo metterla a tacere, ma quella voce rimane, a volte la soffochiamo, non si tratta di cattiva volontà, solo non riusciamo a distinguerla: soffocati dai nostri progetti non riusciamo ad ascoltare chi ci passa accanto e ha bisogno di noi.
L’Africa chiede soprattutto giustizia, non la solita beneficenza di noi “ricchi Epuloni” è una ricchezza di culture di cui noi occidentali ignoriamo completamente l’esistenza.
Se muore una mamma e lascia orfani i suoi tre figli, la mamma della casetta accanto li prende insieme ai suoi, l’anziano è al centro della famiglia, non emarginato.
Da noi è la stessa cosa?
Ecco cos’è per me il mal d’Africa: voglia di condividere, finchè avrò vita e un briciolo di forze, voglio tornarci. E’ sotto i nostri occhi oggi più che mai l’inutilità di tutte le guerre: la condivisione di tutti i beni della terra è l’unica via possibile per arrivare a quella fratellanza universale che tutti noi ci auspichiamo.
Solo con la cultura del dare, della condivisione, consegneremo un mondo unito alle generazioni che ci seguiranno.
Paola Siani cell.3398274101
piccoloprincipe@nessunluogoelontano.it
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giovedì, novembre 02, 2006
12 Novembre M. Pellecchia
Sperando che il tempo si mantenga ancora buona, questa gita è anche per le famiglie con bambini piccoli. Si arriva in fatti in macchina fino alla pineta di Monteflavio (vedi descrizione che segue), la cui area è attrezzata con giochi e spazio per pic-nic. C’è la possibilità di raccogliere della legna nel bosco adiacente (portare aceta e carta per accendere il fuoco), si può preparare così la brace negli appositi posti già forniti di griglia. Per chi poi desidera fare due passi anche con i bambini, per digerire le salsicce e le bruschette o altre lecornie, accompagnate da bevande varie, che ognuno porterà secondo i propri gusti e capacità di consumo, una comoda carrareccia ci aspetta. Anche le carrozzine qui possono circolare, e lungo il percorso si può ammirare il bel panorama sul monte Pellecchia. Ognuno può scegliere tranquillamente la lunghezza del tratto da percorrere.
Per chi invece volesse continuare la gita, legga la descrizione completa dell’escursione.
DESCRIZIONE
Chi volesse camminare un pò, oltrepassata una sbarra e si percorre la carrareccia lungo la Serra dei Ricci ammirando la dorsale del Monte Pellecchia. Si giunge dopo 1 h alla "casa del pastore" (anche qui ci sono tavoli con panche). Chi invece vuole salire sulla cima del Pellecchia può proseguire prendendo il sentiero a destra della casa. Si attraversa una zona boscosa fino a che essa si dirada (1300 m h. 0,50) in prossimità della cresta. Seguendola in direzione Sud si arriva in cima h. 0,25. Il Pellecchia è il monte più alto della catena dei Lucretili. Sulla vetta è installata una croce ed una pala d'elica (nel lontano 1960 qui cadde un aereo); bellissimo il colpo d'occhio che si riceve. Se si è fortunati si può vedere volteggiare anche qualche aquila.
Il ritono (ca. h. 2.00) avviene seguendo lo stesso itinerario della salita.
lunedì, ottobre 30, 2006
Come vestirsi e cosa portare con se in montagna
Bisogna iniziare dalle piccole cose, anche se per molti possono essere banali.
Partiamo dal presupposto che un minimo di effetti personali bisogna sempre averli al seguito, anche per le passeggiate di un paio d'ore.
La prima cosa cui pensare è quindi lo zaino. Per le gite "in giornata" (anche se di poche ore), lo zaino più versatile ha una capienza di 30, al massimo 40 litri.
Vediamo cos'è necessario portare con noi per riempire un pò la nostra sacca. Innanzi tutto, anche per le gite brevi, mettiamo nello zaino qualche cosa da mangiare e, soprattutto, da bere.
Per quanto riguarda l'alimentazione ognuno di noi conosce i propri limiti alimentari ed i problemi legati alla digestione. Il concetto è che non bisogna appesantirsi.
L'abbigliamento deve essere appropriato: può capitare di iniziare la gita con una maglietta ma poi? Indipendentemente da quello che indossiamo alla mattina, nell'arco della giornata possono cambiare tante cose, anche solo perché il percorso si sviluppa su più versanti: ad un tratto esposto al sole ne segue un altro in cui il vento o la stessa ombra determinano sensazione di freddo. L'ideale è essere dotati di un abbigliamento a strati (tipo cipolla!), per vestirsi o spogliarsi a seconda delle condizioni meteo che possono cambiare in fretta. In commercio e in particolare nei negozi più specializzati per l’abbigliamento da montagna, ormai si trova di tutto, pantaloni, magliette, calzini, pile ecc…, di vari tessuti che permettono una corretta traspirazione della pelle e che asciugano in poco tempo. I prezzi sono vari dipende dal portafoglio ci ciascuno e non sempre il prezzo determina la qualità del prodotto. Nella stagione fredda, portatevi sempre un paio di guanti e un cappello (dalla testa si ha la maggior dispersione di calore!). Un cappellino leggero per la stagione più calda e occhiali per ripararvi dal sole. Un poncho (magari di quelli larghi che coprono anche lo zaino). Una buona giacca che ci ripari dal vento e dall'umido. Per ripararsi dal freddo non c'è niente di meglio di un maglione o di un pile.
Non necessariamente, ma possono essere utili un paio di bastoncini, aiutano ad alleggerire il peso del corpo e dello zaino sulle ginocchia. In commercio si trovano quelli high-tech telescopici e leggerissimi.
E' sicuramente importante un ricambio da lasciare in macchina, ma anche nello zaino non guasta: il ricambio, è meglio tenerlo dentro un sacchetto di plastica.... in caso di pioggia si può bagnare lo zaino, ma gli indumenti rimangono senz'altro più asciutti!
Dentro lo zaino, poi, non deve mancare un mini pronto soccorso, qualche cerotto (compresi quelli per le vesciche ai piedi), e qualche goccia di disinfettante non sono certo di troppo.
Le scarpe, ovviamente, devono essere comode, ma non basse, quelle da jogging sono indicate solo per sentieri pianeggianti e senza sassi. Il rischio di slogature è sempre presente, quindi è consigliabile usare uno scarponcino: ne esistono di tanti modelli e prezzi, meglio se impermeabili, fatti con materiali tipo GoreTex o in pelle. In termini di suola (il marchio "vibram", in genere, è una garanzia).
Non ci resta altro che scegliere il vostro percorso e come si suol dire “gambe in spalla” e partire.
Buone gite a tutti.
lunedì, ottobre 23, 2006
Brevi note sull’escursione al Parco Nazionale d’Abruzzo
La bellezza di Civitella Alfedena, piccolo paese immerso nel cuore del parco, si è potuta ammirare sin dalle prime luci dell’aurora che ci hanno accolto al nostro risveglio.
Dopo una buona colazione, e una certa euforia, in 9 dai giovani diciassettenni ai più adulti sessantenni, ci siamo incamminati lungo il sentiero I1 che dal centro del paese ci avrebbe condotti fino al Passo Cavuto, meta che ci siamo proposti per poter ammirare i branchi di camosci.
Con il passo lento ma costante del nostro decano e conoscitore della zona Bruno, ci siamo inoltrati nella faggeta ammirando le mille sfumature dei colori che l’autunno usa per rivestire questi particolari ambienti. Osservado queste bellezze, l’occhio sconfinava ben oltre le chiome degli alberi, fino ad arrivare al cielo. L’azzurro che lo caratterizzava alla nostra partenza cominciava però a prendere sfumare dai toni sempre più grigi. In breve tempo sopra le nostre teste si sono formate grosse nubi dal tono minaccioso. Dagli zaini si sono fatte strada fra panini e borracce, le mantelle che alle prime gocce d’acqua hanno pensato bene di fare il proprio dovere. Con una nuova grinta abbiamo proseguito il nostro percorso. La buona volontà però ad un certo punto ha dovuto arrendersi a una sempre più persistente pioggia. Una smorfia d'amarezza si è stampata nel volto di ciascuno nel dover prendere la triste decisione del ritorno. In montagna capitano di questi momenti, bisogna saperli accettare in modo sereno. Ci siamo così detti che il parco nessuno lo sposterà e neppure i camosci, quindi si può sempre ritornare con la speranza di trovare delle condizioni meteo più clementi. Lungo il ripiego siamo passati alla fossa del lupo che si trova nel centro del paese di Civitella, dove vivono alcuni lupi con la speranza di fare qualche foto. Ma anche di loro nessuna traccia, hanno pensato bene che con quel tempo di rimanersene rintanati da qualche parte.
Lungo la strada del ritorno sosta in un giardino di Pescasseroli per consumare nonostante tutto in allegria il nostro pranzo. Al nostro rientro a Roma, dopo i consueti saluti di congedo, ci siamo lasciati con l’appuntamento per chi po’ di rivederci alla prossima uscita.
Ancora una volta mi sembra di poter costatare, che questi momenti vissuti insieme a contatto con la natura e con lo spirito con cui li propongo (vedi sul blog ciccando su Benvenuti), le persone che magari vengono per la prima volta e si conoscono li per li, e con quelli che già vi hanno partecipato, sia un modo interessante per creare dei rapporti semplici ma veri, fatti di accoglienza. Condivisione e amicizia.
Altre foto le trovate cliccando "su guarda tutte le foto del blog"
Se volete potete lasciare il vostro commento (cliccare su comments)
Domenico
mercoledì, ottobre 11, 2006
21/22 Ottobre escursione al Passo Cavuto (Parco Nazionale d’Abruzzo)
Passo Cavuto (1942 m)
Escursione in ambiente montano nel cuore del Parco Nazionale d’Abruzzo, da Civitella Alfedena per la Val di Rose, e discesa per la stessa via. È uno dei sentieri più frequentati e classici del Parco e di tutte le montagne abruzzesi: alla bellezza della faggeta aggiunge infatti la possibilità di osservare i camosci della Val di Rose, che si lasciano – al contrario dei loro simili delle altre vallate del Parco – osservare e fotografare facilmente.
Da Civitella Alfedena (1107 m) si esce seguendo le indicazioni per la Val di Rose, che iniziano dal centro del paese. Si sale a gradini accanto ad una casa, poi tra prati e muretti a secco lungo un viottolo piuttosto sconnesso. Un ripido tratto sulla costa ben visibile dal paese porta alla bella faggeta di Val di Rose, che si risale sulla destra (sinistra orografica) con percorso meno faticoso, e molto bello. La faggeta, in questo periodo, si presenta in tutto il suo splendore autunnale, con le foglie giallo e arancio. Quando il bosco si dirada (alt. 1650 m), si esce nell'ampia conca chiusa dalle rocce del M. Sterpidalto (a destra), del M. Boccanera (a sinistra) e di Passo Cavuto (di fronte, a sinistra). Il sentiero sale per una serie di gradini erbosi (qui è facile osservare i camosci al pascolo), poi imbocca una valletta erbosa, ripida, che porta a Passo Cavuto (alt. 1942 m, ore 2:30 – 3:00). Magnifico il panorama sulle rocce del M. Petroso, sull'ampia conca sommitale della Valle Jannanghera, e sulla Camosciara dominata dal Balzo della Chiesa. Il Passo Cavuto costituisce un magnifico punto di osservazione dei branchi di camosci che si lasceranno facilmente avvicinare a poche decine di metri. Questa straordinaria opportunità si potrà realizzare a condizione che si osservi un certo silenzio non ci si allontani dal sentiero. La gita può anche concludersi qui. Il ritorno a Civitella Alfedena avviene per la stessa via della salita.
martedì, settembre 26, 2006
Escursione Monte Monna (1952 m) (domenica 24 settembre 2006)
Dopo la pausa estiva, riprendono le escursioni.
L’appuntamento per i romani è alle ore 7:30 a Piazza Annibaliano, per tutti gli altri alle 8:30, casello di Anagni - Fiuggi.
Una volta tutti riuniti, ci avviamo verso Anagni e poi verso Guarcino, ed in fine iniziamo la salita per Campo Catino (1793mt.).
La salita è una strada di montagna, tutte curve, che, però passa in mezzo ad una faggeta bellissima. Tutto questo verde inizia a riposare gli occhi ed a rilassare il corpo.
Siamo un gruppo di 18 persone (tra i quali un bambino di 9 anni) ed una cagnetta, Kelly!
La giornata è bellissima: sole splendente e poche nuvole (durante la giornata non copriranno mai il sole).
Arrivati a Campo Catino ci avviamo verso il sentiero percorrendo la ripida salita di una pista da sci. Il sentiero non è molto difficile, anche perché il dislivello, da dove siamo partiti sino alla vetta, è di soli 300 m.
Quando si è in tanti, immancabilmente ci si sparpaglia in piccoli gruppetti: alcuni con un buon passo aprono la via, poi tutti gli altri man mano. Dopo un’ora di cammino ci fermiamo un pò per ricompattare il gruppo ed ammirare un panorama meraviglioso; un esperto indica le varie vette che vediamo in lontananza: il Corno Grande del massiccio del Gran Sasso e poi il Brancastello, il Camicia, il Prena, il Sirente, la Maiella, il monte Amaro…..
Sotto di noi la visione della valle Roveto.
Mentre ammiriamo il paesaggio ci riposiamo e scherziamo un po’ sull’alta percentuale di ossigeno presente nell’aria, alla quale i romani non sono abituati e che porta a tutti una certa euforia.
La novità di oggi è la presenza di due famiglie (mamma, papà e figlio/a); le due signore ne approfittano per scambiare punti di vista su tanti, tantissimi argomenti (approfittano delle poche salite e del poco impiego di fiato).
Un altro piccolo strappo ci fa salire ancora un po’, per poi rimetterci nuovamente in piano. Adesso camminiamo in cresta ed è particolarmente emozionante il paesaggio che vediamo da una parte e dall’altra. La particolarità è che da un lato siamo nel Lazio dall’altro siamo in Abruzzo. Da una parte più nitido (Abruzzo), dall’altra più foschia (Lazio).
Andando avanti ci attende una serie di leggeri saliscendi ed ecco che il gruppo si ridivide.
Intorno alle 13 siamo tutti in vetta ! Due ore e trenta dalla partenza è un tempo accettabile vista la varietà degli escursionisti.
Uno stupendo sole fa brillare la croce in acciaio, posta sulla cima dal CAI di Frosinone nel settembre del 1973. C’è attaccata la foto di un giovane e la targa che gli amici hanno voluto lasciare in suo ricordo:
“Qui siamo più vicini a te, sempre insieme a noi”!
Mi sembra una bellissima dedica a qualcuno che è morto precocemente.
La presenza delle famiglie (in genere le mamme pensano sempre a tutto) ha portato una grande ed importante novità: un thermos con il caffè! Che meraviglia! Di un goccio ciascuno riusciamo ad usufruirne tutti!
Si scherza allegramente su tanti argomenti; si raccontano gesta goliardiche vissute in vacanza.
Quando si sta bene insieme il tempo passa veloce ed ecco che sono quasi le 14 e ci si prepara per iniziare a scendere.
Durante il tragitto incontriamo anche una piccola mandria di cavalli che, con un’agilità incredibile, camminava su questi sentieri rocciosi e scoscesi.
Si scende chiacchierando allegramente, con qualcuno ci si conosce di più e questo serve per costruire un clima estremamente amichevole. Carlo propone di fare un sentiero diverso, che avevamo intravisto all’andata il quale attraversa un enorme prato. Piano piano arriviamo tutti alle macchine, e dopo un velocemente saluto ci avviamo per il rientro.
E’ stata una bellissima giornata per tutti nella quale abbiamo usufruito, oltre che di un bellissimo clima meteorologico, anche di un bellissimo clima tra tutti noi!
Berardo Di Marcello
P.S. Alre foto si possono vedere cliccando su "Guarda tutte le Foto del Blog" nella collonnina di destra.
martedì, settembre 05, 2006
Prossima Escusione 24 Settembre '06
Monte Monna
Altezza: 1952 m s.l.m. (Monti Ernici)
Partenza:Campo Catino (1793 m s.l.m.)
Dislivello all'andata: 300 m.
Dislivello al ritorno: 300 m.
Segnaletica: C.A.I.
Numero sentiero: 4
Tempo di percorrenza andata: 2 ore e 10 min. ca.
Tempo di percorrenza ritorno: 2 ore e 10 min. ca.
Percorso andata: Campo Catino, Monte Vermicano, Campo Vano, Monte Monna.
Percorso ritorno: Monte Monna, Campo Vano, Monte Vermicano o Conca, Campo Catino
Come arrivare a Campo Catino:
•Da Frosinone: (Km. 45) S.S nr.155 per Fiuggi - Alatri - bivio per Guarcino - segnaletica per Campo Catino.
•Da Fiuggi: (Km. 31,5) S.S nr.155 per Frosinone - bivio per Guarcino - segnaletica per Campo Catino.
Bella e piacevole passeggiata interamente panoramica a cavallo tra la Val Roveto e la Valle del Fiume Cosa.
Raggiunto il piazzale di Campo Catino, proseguiamo sulla strada asfaltata in direzione della chiesetta dedicata alla "Stella Mattutina" fino a raggiungere il ristorante "Il Bucaneve".
Qui termina la strada e dietro il ristorante inizia il sentiero C.A.I. nr. 4.
Partenza:Campo Catino (1793 m s.l.m.)
Dislivello all'andata: 300 m.
Dislivello al ritorno: 300 m.
Segnaletica: C.A.I.
Numero sentiero: 4
Tempo di percorrenza andata: 2 ore e 10 min. ca.
Tempo di percorrenza ritorno: 2 ore e 10 min. ca.
Percorso andata: Campo Catino, Monte Vermicano, Campo Vano, Monte Monna.
Percorso ritorno: Monte Monna, Campo Vano, Monte Vermicano o Conca, Campo Catino
Come arrivare a Campo Catino:
•Da Frosinone: (Km. 45) S.S nr.155 per Fiuggi - Alatri - bivio per Guarcino - segnaletica per Campo Catino.
•Da Fiuggi: (Km. 31,5) S.S nr.155 per Frosinone - bivio per Guarcino - segnaletica per Campo Catino.
Bella e piacevole passeggiata interamente panoramica a cavallo tra la Val Roveto e la Valle del Fiume Cosa.
Raggiunto il piazzale di Campo Catino, proseguiamo sulla strada asfaltata in direzione della chiesetta dedicata alla "Stella Mattutina" fino a raggiungere il ristorante "Il Bucaneve".
Qui termina la strada e dietro il ristorante inizia il sentiero C.A.I. nr. 4.
giovedì, agosto 31, 2006
CHE COSA C’È DI PIU’?
Non credo che esista un di più, che ti possa lasciare una gioia immensa e che riesca a dare un valore a tutto ciò che sei, che fai; dove ogni gesto trovi il suo perché.
Sentire nel profondo il motivo del perché ci siamo, del perché ci troviamo qui proprio noi e non altri in questo dato momento della storia.
Trovare in ogni istante del nostro tempo il giusto sentiero da percorrere e vedere di essere ben incamminati, perché lo intravediamo nelle mille sfumature dei volti delle tante persone che ogni giorno avviciniamo. Usato nei secoli in tante forme, con i linguaggi più diversi, dandogli significati quasi mai all’altezza di quello vero.
L’amore.
Questa grande possibilità che abbiamo per compiere un disegno enorme, non solo per noi, ma per tutto ciò che c’è stato dato.
È una brezza leggera l’amore, delicato, attento nei suoi gesti, non vuole apparire, anche se al suo passaggio lascia un segno indelebile in chi lo incontra. È contagioso e si diffonde. La nostra libertà è la sua radice, possiamo decidere di farlo vivere oppure morire. Se siamo attenti si fa scorgere da tante parti e ci fa intravedere la fantasia che sa usare nel manifestarsi. Ogni essere porta con sé una sua espressione, un qualcosa d’unico, che se vissuto ti sembra sia proprio personalizzato per te in quel momento in cui l’incontri. Chi mai potrà dire di non averlo incontrato? Non credo che un uomo possa chiudere il sipario di questo mondo senza poter dire almeno una volta: io l’ho vissuto, l’ho provato, l’ho sentito, l’ho conosciuto. Questo perché fa parte della sua stessa natura.
I suoi sono colori dai toni caldi e luminosi; anche nei momenti grigi si può scorgere la luce che si nasconde dietro. Tutto potrà succedere sulla scena di questo mondo, ma nulla potrà mai cambiare questa verità.
Sperimentare la sua vita con altri che lo hanno accolto come te, significa amplificare mille e mille volte di più la sua potenza, far pulsare con uno spirito nuovo ogni cosa che ti circonda. L’amore! Come posso non dare tutto per lui? Sì, in questo grande e serio gioco che è la vita, questa è la carta vincente da giocare.
Domenico (Dono)
Non credo che esista un di più, che ti possa lasciare una gioia immensa e che riesca a dare un valore a tutto ciò che sei, che fai; dove ogni gesto trovi il suo perché.
Sentire nel profondo il motivo del perché ci siamo, del perché ci troviamo qui proprio noi e non altri in questo dato momento della storia.
Trovare in ogni istante del nostro tempo il giusto sentiero da percorrere e vedere di essere ben incamminati, perché lo intravediamo nelle mille sfumature dei volti delle tante persone che ogni giorno avviciniamo. Usato nei secoli in tante forme, con i linguaggi più diversi, dandogli significati quasi mai all’altezza di quello vero.
L’amore.
Questa grande possibilità che abbiamo per compiere un disegno enorme, non solo per noi, ma per tutto ciò che c’è stato dato.
È una brezza leggera l’amore, delicato, attento nei suoi gesti, non vuole apparire, anche se al suo passaggio lascia un segno indelebile in chi lo incontra. È contagioso e si diffonde. La nostra libertà è la sua radice, possiamo decidere di farlo vivere oppure morire. Se siamo attenti si fa scorgere da tante parti e ci fa intravedere la fantasia che sa usare nel manifestarsi. Ogni essere porta con sé una sua espressione, un qualcosa d’unico, che se vissuto ti sembra sia proprio personalizzato per te in quel momento in cui l’incontri. Chi mai potrà dire di non averlo incontrato? Non credo che un uomo possa chiudere il sipario di questo mondo senza poter dire almeno una volta: io l’ho vissuto, l’ho provato, l’ho sentito, l’ho conosciuto. Questo perché fa parte della sua stessa natura.
I suoi sono colori dai toni caldi e luminosi; anche nei momenti grigi si può scorgere la luce che si nasconde dietro. Tutto potrà succedere sulla scena di questo mondo, ma nulla potrà mai cambiare questa verità.
Sperimentare la sua vita con altri che lo hanno accolto come te, significa amplificare mille e mille volte di più la sua potenza, far pulsare con uno spirito nuovo ogni cosa che ti circonda. L’amore! Come posso non dare tutto per lui? Sì, in questo grande e serio gioco che è la vita, questa è la carta vincente da giocare.
Domenico (Dono)
martedì, luglio 25, 2006
Gran Sasso
TUTTI IN VETTA SEGUENDO L’ALBA
Sabato pomeriggio in Piazza Annibaliano a Roma, alle ore 16, ci siamo ritrovati in dodici, quattro ragazze e otto ragazzi, dei diciannove che si erano prenotati per l’escursione al Gran Sasso.
Con entusiasmo ci siamo avviati verso l’ostello di Campo Imperatore, nostra prima tappa.
Dopo un’abbondantissima cena, ci siamo sistemati per la breve notte (4 ore di dormiveglia).
Sveglia fissata per le 3.30. La velocità dell’alzata è stata ottima vista l’ora.
Usciti dal nostro bivacco, a salutarci, un cielo ammantato di stelle ci ha fatti rimanere a bocca aperta senza nulla commentare.
Alle 4.30, con un giusto passo, ci siamo incamminati verso il rifugio Duca Degli Abruzzi. Lungo la via abbiamo trovato ammucchiate alcune assi di legno con un cartello che invitava i passanti a dare una mano per portarle su al rifugio. Subito qualcuno di noi si è dato da fare. Non fa male iniziare la giornata con un bel gesto. Alle 5 i primi segni dell’alba. Raggi di luce cominciavano a mostrarsi dietro la cima del monte Aquila. Uno spettacolo fantastico. E’ straordinario vedere ciò che ogni giorno il creato ci offre, e rarissime sono le volte in cui lo possiamo ammirare. Dopo le foto di rito, siamo ritornati giù per la colazione.
Dopo esserci ben alimentati, verso le 7,30 ci siamo incamminati verso la cima del Corno Grande.
Alla sella del monte Aquila il gruppo si è diviso in due. Tre hanno pensato di salire per la via direttissima, gli altri per la cresta ovest.
Io mi sono aggregato al secondo gruppo perché ero l’unico a conoscenza del percorso e per dare un aiuto in caso di difficoltà.
L’itinerario lungo la cresta, per quelli che si cimentavano per la prima volta con questo genere di difficoltà, si è mostrato abbastanza faticoso e impegnativo soprattutto in alcuni tratti. I momenti un po’ più difficili, sono stati però superati da tutti con il sostegno e l’incoraggiamento reciproco. Qualche consiglio tecnico è servito. E’ stata un’occasione per misurarsi con se stessi, costatare che a volte insieme si possono raggiungere degli obiettivi che da soli sembravano impossibili da raggiungere. Lo spirito di gruppo ancora una volta è stato fondamentale. Tutta la fatica fatta è stata alla lunga appagata dallo straordinario paesaggio che si è ammirato durante tutta l’ascensione. Il top si è raggiunto quando abbiamo messo piede sulla vetta. Ci siamo ricongiunti con gli altri che provenivano lungo la via direttissima. Il momento di festeggiare e complimentarsi fra tutti è stato breve ma intenso. Abbiamo dovuto però affrettarci, perché le condizioni meteo cominciava a cambiare in peggio. Dopo aver mangiato velocemente qualche cosa, e fatte alcune foto, ci siamo incamminati lungo la via del ritorno. Il gruppo come all’andata, si è diviso in due. I nostri tre baldi della direttissima hanno preso la via della cresta, tutti gli altri invece lungo la normale. I primi segni di un temporale ci hanno investiti appena sotto le creste. Con attenzione abbiamo aumentato il passo per portarci fuori della portata dei fulmini. La pioggia per nostra fortuna e stata di poca intensità.
Alcuni problemi alle ginocchia per la fatica accumulata, hanno cominciato a dare fastidio ad una ragazza del gruppo. Lungo la lunga discesa, come tante volte succede in montagna, c’è stato un bel gesto di solidarietà da parte d’alcuni escursionisti, i quali vedendo la difficoltà di questa persona, si sono subito interessati e concretamente dai loro zaini hanno tirato fuori della pomata e una ginocchiera prestando un veloce soccorso. Uno di loro si è anche offerto di portare a valle il suo zaino. Così pian piano tutti sono arrivati e dopo aver consegnato ai nostri samaritani la provvidenziale ginocchiera, abbiamo festeggiato con qualche bevanda calda, il successo. La felicità di questi due giorni riusciva quasi a coprire l’evidente stanchezza che si notava nei volti di ciascuno. Con abbracci e strette di mano ci siamo salutati. Il desiderio di tutti è di rivederci a settembre per trascorrere un'altra domenica montana.
Domenico
Sabato pomeriggio in Piazza Annibaliano a Roma, alle ore 16, ci siamo ritrovati in dodici, quattro ragazze e otto ragazzi, dei diciannove che si erano prenotati per l’escursione al Gran Sasso.
Con entusiasmo ci siamo avviati verso l’ostello di Campo Imperatore, nostra prima tappa.
Dopo un’abbondantissima cena, ci siamo sistemati per la breve notte (4 ore di dormiveglia).
Sveglia fissata per le 3.30. La velocità dell’alzata è stata ottima vista l’ora.
Usciti dal nostro bivacco, a salutarci, un cielo ammantato di stelle ci ha fatti rimanere a bocca aperta senza nulla commentare.
Alle 4.30, con un giusto passo, ci siamo incamminati verso il rifugio Duca Degli Abruzzi. Lungo la via abbiamo trovato ammucchiate alcune assi di legno con un cartello che invitava i passanti a dare una mano per portarle su al rifugio. Subito qualcuno di noi si è dato da fare. Non fa male iniziare la giornata con un bel gesto. Alle 5 i primi segni dell’alba. Raggi di luce cominciavano a mostrarsi dietro la cima del monte Aquila. Uno spettacolo fantastico. E’ straordinario vedere ciò che ogni giorno il creato ci offre, e rarissime sono le volte in cui lo possiamo ammirare. Dopo le foto di rito, siamo ritornati giù per la colazione.
Dopo esserci ben alimentati, verso le 7,30 ci siamo incamminati verso la cima del Corno Grande.
Alla sella del monte Aquila il gruppo si è diviso in due. Tre hanno pensato di salire per la via direttissima, gli altri per la cresta ovest.
Io mi sono aggregato al secondo gruppo perché ero l’unico a conoscenza del percorso e per dare un aiuto in caso di difficoltà.
L’itinerario lungo la cresta, per quelli che si cimentavano per la prima volta con questo genere di difficoltà, si è mostrato abbastanza faticoso e impegnativo soprattutto in alcuni tratti. I momenti un po’ più difficili, sono stati però superati da tutti con il sostegno e l’incoraggiamento reciproco. Qualche consiglio tecnico è servito. E’ stata un’occasione per misurarsi con se stessi, costatare che a volte insieme si possono raggiungere degli obiettivi che da soli sembravano impossibili da raggiungere. Lo spirito di gruppo ancora una volta è stato fondamentale. Tutta la fatica fatta è stata alla lunga appagata dallo straordinario paesaggio che si è ammirato durante tutta l’ascensione. Il top si è raggiunto quando abbiamo messo piede sulla vetta. Ci siamo ricongiunti con gli altri che provenivano lungo la via direttissima. Il momento di festeggiare e complimentarsi fra tutti è stato breve ma intenso. Abbiamo dovuto però affrettarci, perché le condizioni meteo cominciava a cambiare in peggio. Dopo aver mangiato velocemente qualche cosa, e fatte alcune foto, ci siamo incamminati lungo la via del ritorno. Il gruppo come all’andata, si è diviso in due. I nostri tre baldi della direttissima hanno preso la via della cresta, tutti gli altri invece lungo la normale. I primi segni di un temporale ci hanno investiti appena sotto le creste. Con attenzione abbiamo aumentato il passo per portarci fuori della portata dei fulmini. La pioggia per nostra fortuna e stata di poca intensità.
Alcuni problemi alle ginocchia per la fatica accumulata, hanno cominciato a dare fastidio ad una ragazza del gruppo. Lungo la lunga discesa, come tante volte succede in montagna, c’è stato un bel gesto di solidarietà da parte d’alcuni escursionisti, i quali vedendo la difficoltà di questa persona, si sono subito interessati e concretamente dai loro zaini hanno tirato fuori della pomata e una ginocchiera prestando un veloce soccorso. Uno di loro si è anche offerto di portare a valle il suo zaino. Così pian piano tutti sono arrivati e dopo aver consegnato ai nostri samaritani la provvidenziale ginocchiera, abbiamo festeggiato con qualche bevanda calda, il successo. La felicità di questi due giorni riusciva quasi a coprire l’evidente stanchezza che si notava nei volti di ciascuno. Con abbracci e strette di mano ci siamo salutati. Il desiderio di tutti è di rivederci a settembre per trascorrere un'altra domenica montana.
Domenico
lunedì, luglio 03, 2006
Escursione 22-23 luglio
ALBA AL GRAN SASSO
Che ne dite di questa proposta prima delle vacanze?
Sabato 22 luglio appuntamento a Piazza Annibaliano ore 16 con partenza per Campo Imperatore 2103 m, sotto le pendici del versante aquilano del Gran Sasso, arrivo verso le 18,30 circa.
Prenottamento presso l'ostello di Campo Imperatore.
Partenza prima dell'alba, per cercare di anticipare il sorgere del sole. Meta vetta occidentale del Corno Grande 2912 m, dislivello 800 m. tempo tutta la giornata è il punto più elevato del Gran Sasso.Ci saranno comunque dei percorsi alternativi per chi non se la sente di salire in vetta.
SPESE
Rispetto ai dati comunicati in precedenza il costo è cambiato. La spesa è di £.40,00 che comprende il prenottamento con le lenzuola e gli asciugamani, cena completa e una colazione abbondante. Le spese del viaggio sono a parte.
Per il pranzo della domenica ognuno porti ciò che ritiene necessario.
Nell'ostello c'è un bar.
CASA PORTARE
1-Scarponcini da montagna direi indispensabili soprattutto per chi volesse salire in cima. Le scarpe da ginnastica in ogni caso anche per i percorsi alternativi non sono molto consigliate.
2-Un paio di calze adatte
3-Un pail
4-Una giacca leggera impermeabile
5-Un pantalone lungho e uno corto
6-Una maglietta di ricambio
7-Una borraccia o bottiglia per l'acqua.
8-Occhiali da sole e cappellino per chi ne necessita.
9-La macchina fotografica per chi c'è la e la volesse portare.
Se avete bisogno di altre delucidazioni mandatemi una e-mail.
venerdì, giugno 30, 2006
Escursione 29 giugno 06: Monte Terminillo (2210mt)!
Il monte Terminillo è il monte dove i romani le domeniche invernali vanno a sciare. Ci sono altri monti ma, il Monte Terminillo, è stato il primo, rimane abbastanza vicino a Roma, e così è molto frequentato in inverno ed in estate
La partenza degli amici romani è sempre di tutto comodo per dei montanari (appuntamento alle 7,30, partenza non prima delle 8!).
Questa mattina ho capito il vero motivo della caduta dell’Impero Romano: l’orario della sveglia mattutina! I barbari, uomini rudi, abituati alla vita dura, la mattina erano fin dalle prime ore sul campo di battaglia.
I romani, tra la sveglia tarda, il cappuccino ed il cornetto, qualche altra operazione personale…, il traffico del raccordo e delle vie consolari…. sul campo de battaglia ma quando ce arrivavano?
Beh! Lasciamo stare la storia antica, veniamo ai giorni nostri, ovvero all’escursione.
Il programma di Dono è sempre adatto a tutti i piedi!
Ed infatti questa escursione prevedeva l’arrivo al rifugio Sebastiani in macchina e poi, da li, in vetta. Per chi desiderava altra camminata in cresta ed altri sentieri.
Eravamo 15, tutti giovani, molto giovani, ad eccezione di tre che hanno superato i cinquanta…non diciamo di quanto, basti pensare che uno dei tre è andato in pensione da pochi giorni.(beato lui)
Dopo un viaggio abbastanza tranquillo arriviamo a lato del rifugio Sebastiani ci prepariamo velocemente e, all’alba (si fa per dire) delle ore 10 riusciamo a partire!
Il tempo è coperto e ventoso! Meno male…se ci fosse stato il sole dei giorni scorsi...!
La salita è subito ripida e qui incomincia a vedersi la differenza tra chi ce la fa, e chi arranca.Il nostro capo gruppo (Dono) dispensa consigli in particolare ai principianti: piccoli passi, lenti e regolari. Il gruppetto inevitabilmente si allunga e, tra i primi e gli ultimi beh, un bel po’ di vuoto.
Il vento è fastidioso, però pazienza, anche lui deve fare il suo lavoro: in fondo siamo noi che saliamo sui monti dove il vento è di “casa” e può fare come vuole! Di fronte a questa considerazione mi metto tranquillo e sopporto tutto, anche il sudore asciugato con il vento: come se dice a Roma “una mano santa per la mia bronchite”!
Alcuni giovani davanti, noi tre “vecchietti” al centro altri in fondo.
Oggi c’è Pino un profondo conoscitore di tutte le specie di fiori e vegetazione che incontriamo. Fotografa tutto e tutto descrive con dovizia di particolari. C’è anche Giancarlo che non è da meno: un cuore contadino…donato alla chimica (professore di chimica), che ammira le genzianelle le violette, si vede che si sente a proprio agio in questo ambiente.
Nel salire non si parla molto perché si cerca di risparmiare il fiato!
Alcuni dei partecipanti con scarpette inadatte alla montagna fanno un po’ di fatica!
Dopo poco meno di 1,5 ore siamo in vetta(2210mt.)….di già? Un po’ deluso della piccola scarpinata, anche se è stata quasi tutta in salita volentieri siedo a riposare ( i miei polmoni non sono ancora del tutto liberi), cercando di mettermi in una posizione riparata dal vento.
Come qualcuno asserisce, la bellezza delle escursioni è riposare sulla vetta in compagnia di cose buone da mangiare, l’importante è aver camminato, poco o tanto poco importa. Dieci minuti dopo arrivano anche i ritardatari!
Si sta bene in vetta, anche se la foschia non permette di godere del bellissimo panorama che da lassù è possibile godere.
I più esperti indicano in direzione del Gran Sasso e di altri monti! Bisogna fidasse…tanto nun se vede niente!!
Dopo poco iniziano le prime proposte: andiamo in cresta più avanti? Ritorniamo per un altro sentiero? Arriviamo sino all’altro rifugio? Osservare i volti delle persone dopo ogni proposta dava l’indice dell’affaticamento e della volontà di ciascuno. Come capita in ogni gruppo democratico: chi vuole andare va, chi vuole restare resta…..e quello è!
Io, manco a dirlo, mi metto con il gruppo dei “annamo avanti a vedè che c’è”! Lo spirito Colombiano (Crtistoforo intendo) alberga dentro di versi e così si parte.
Un prima parte in cresta con un vento che aumenta sempre di più sino a farci barcollare. Poi finalmente si inizia a scendere.
Abbiamo perso di vista chi stava dietro di noi, telefoniamo e ci confermano che sono tornati indietro: troppo difficoltoso per qualcuno.
Noi rimasti in pochi, anche una giovane e coraggiosa ragazza, decidiamo di affrontare un sentiero di ritorno diverso da quello fatto. Ce lo propone Donato grande conoscitore di questei monti. L’unica incognita: alcuni lastroni di neve da attraversare senza essere ben attrezzati!
Mentre scendiamo il vento ci lascia al nostro destino e soprattutto ci lascia con il caldo che lui aveva cercato di allontanare.
Valli a capì ‘sti uomini, nu glie va bene proprio niente!
Si chiacchiera allegramente, si scherza con questi giovani di montagna poco esperti ma a fantasia dei professionisti!
In ogni spedizione un capo ci vuole sempre ed allora nominiamo nostro capo e guida :Donato (Beh, l’unico che conosceva il sentiero visto che Dono si è sacrificato con il gruppo che è rimasto in cima. Donato, detto il saggio (lo dico perché un po’ conosco la “testa “ che ha).
Inizialmente le difficoltà non sono molte!
Poi di fronte a noi ecco che dobbiamo attraversare un lungo lastrone di neve ghiacciata.
Qualcuno più esperto, con attenzione, va avanti e cerca di creare delle impronte profonde dove gli altri dietro possono mettere il piede in sicurezza.
L a nostra intrepida Maria G., con le scarpette da ginnastica (turista fai da te!!) non se la sente di rischiare! Effettivamente c’è serio pericolo di scivolare fino in basso tra le rocce. Decidiamo con il capo che io e lei aggiriamo l’ostacolo: scendere in basso di diversi metri dove la neve si assottiglia e poi risalire. Facile a dirsi, difficile a farsi perché scendere nel ghiaione , con le scarpette da ginnastica presenta qualche difficoltà, ed d infatti qualche piccolo taglietto alle caviglie se le procura. Lentamente, e non senza qualche difficoltà, dovute allo scivolamento dei piedi sui sassi appena apoggiati riusciamo a scendere mentre gli altri aspettavano in alto dopo aver attraversato il lastrone. Poi la risalita non facile neanch’essa. Lentamente, quasi a quattro zampe, con la forza di volontà MG ed io riusciamo a riguadagnare il gruppo.
Medichiamo con un fazzoletto bagnato le piccole escoriazioni alle caviglie, ma MG è tenace e subito riprende il cammino, che per fortuna continua in piano.
Un ultimo strappo ci costringe ad un ultima salita e poi da li la meravigliosa visione del rifugio da dove siamo partiti.
Dopo poco ecco il rifugio…non era un miraggio!!
Ce l’avevamo fatta!
La meraviglia quando non abbiamo visto l’altro gruppo: bene se la sono presa comodo!!
Pensavamo di trovare già l’altro gruppo che aveva scelto di rimanere in vetta e poi ridiscendere per lo stesso sentiero.
Ci sistemiamo fuori dal rifugio e finalmente possiamo riposare e rifocillarci!
Dopo poco scendono gli altri e così il gruppo si riunisce festosamente!
Qualche bevanda di “sostengo”, loro avevano mangiato in vetta: caffé, birra!
Poi la foto di gruppo con l’autoscatto!
Anche oggi il variegato gruppo di “domenicacondomenico” ha vissuto un’altra giornata tra i monti, in amicizia, gioia dello stare insieme, con semplicità ed accoglienza dei nuovi amici venuti per la prima volta.
Ciao.
berardo
lunedì, giugno 19, 2006
La gemma dell'Himalaya
La gemma dell'Himalaya
Everest
di Paolo Crepaz
Thuji chey, Chomolungma. Ti sono riconoscente, Everest. Così Tenzing Sherpa espresse i suoi sentimenti di fronte alla "montagna che nessun uccello può sorvolare".
Raffiche di vento gelido, appena mitigate dal caldo sole di mezzogiorno, sferzano lo sperone di roccia del Khala Pattar, facendo sventolare senza sosta la corona di bandiere della preghiera e di kata, le sciarpe votive di seta che lo avvolgono.
Questa montagna nera, 5.600 metri di quota, considerata qui poco più che una collina, è la più straordinaria terrazza sull'Everest che esista, la meta del nostro e di centinaia di altri trekking che ogni hanno animano la valle del Khumbu. In quei pochi metri quadrati ci stringiamo la mano, ci scambiamo pacche sulle spalle, qualcuno si lascia andare ad un abbraccio.
Poi cominciamo a guardarci attorno.
Davanti ai nostri occhi increduli, che stropicciamo non solo per vincere l'appannamento dello sforzo immane compiuto per salire quassù dove l'ossigeno si è fatto così raro, lo spettacolo è incredibile: per 360 gradi l'orizzonte è disegnato solo da vette, grandi e piccole, avvolte di neve immacolata, colonne d'avorio dell'immenso cielo azzurro. Il profilo candido delle cime rende ancora più incombente l'impressionante triangolo nero dell'Everest che domina la scena, con quel pennacchio di neve, sollevata dal vento, che ne smussa la sommità. Improvvisamente si risvegliano nella memoria i racconti di tante spedizioni, letti al caldo del caminetto di casa, e, con lo sguardo, ripercorriamo, affascinati, ogni segmento della cresta: dapprima quella di Nord-Est, dove perirono, nella prima vera sfida all'Everest, Mallory ed Irvine, l'8 giugno del '24; poi il Colle Sud, 7934 metri, la sella incuneata fra il Lhotse, silenziosa ancella del tetto del mondo e l'Everest, ormai sede abituale del campo IV, quello dell'attacco alla vetta; la cima sud e, poco sopra, l'insidioso, stretto e verticale Hillary Step, a meno di un'ora dalla cima, che miete ogni anno le sue vittime; e poi la sommità, la meta sognata, il terzo polo del pianeta, 40- 50 gradi sotto zero, "da cui puoi vedere quanto sia enorme il mondo e quanto ci sia ancora da vedere e imparare" come disse Norgay a suo figlio.
Ai suoi piedi il ghiacciaio del Cwm occidentale con i suoi seracchi imponenti, nuovi ogni giorno e sempre più larghi per lo scioglimento del ghiaccio. Quale un sontuoso velo bianco da sposa, la sua scia di ghiaccio svolta improvvisamente, lì, 400 metri sotto di noi, dove normalmente si impianta il Campo Base, allungandosi per quasi 5 chilometri in una sorta di oceano di onde gelate, alte fino a 20 metri, spruzzate da sciami di pietre cadute dalle cime vicine. Il Pumori, 7.165 metri, l'enorme pandoro zuccherato che sfida il cielo alla nostra sinistra è la regina delle sentinelle dell'Everest: a destra l'orizzonte è segnato dal Mehra Peak, il Lobuche, l'Ama Dablam, il Thamserku, e via all'infinito, fin dove arriva lo sguar- do, con una selva di 6.000 che non hanno neppure un nome per la loro" modestia.
La luminosità quassù è straordinaria: l'aria, purissima e rarefatta, non pone filtri. Scattiamo foto senza sosta, affascinati dallo spettacolo, desiderosi di fissare per sempre quei momenti, bramosi di catturare immagini da mostrare agli amici. Non c'è né tempo, né voglia di mangiare qualcosa che sia più di una caramella. Già, le caramelle. Nel suo racconto Tenzing Norgay, lo sherpa che conquistò la vetta con Hillary nel '53, scrisse: "Sulla cima seppellii nella neve il gatto (un pupazzo nero di pezza, il portafortuna di Hillary, n.d.r.), il mozzicone di matita (quella della scuola, rossa e blu, datagli dalla figlia, n.d.r.) e le caramelle. A casa - pensai - offriamo caramelle a chi ci è più vicino e più caro. L'Everest mi è sempre stato molto caro ed ora mi è anche vicino.
Mentre ricoprivo le offerte, recitai in silenzio una preghiera. Ed elevai i miei ringraziamenti. Sette volte ero venuto alla montagna dei miei sogni, e questa volta, la settima, con l'aiuto di Dio, il sogno si era avverato" Thuji chey, Chomolungma. Ti sono riconoscente, Everest".
Solo molto più tardi, Tenzing Norgay, si sarebbe reso conto del vero significato di quella impresa. Per lui, piccino, nato in minuscolo villaggio sotto il tetto del mondo, la salita all'Everest, "la montagna che nessun uccello può sorvolare", era stato il sogno che non lo lasciava mai: il racconto dei "chilina-nga", "gli uomini che vengono da lontano" per scalarla, lo affascinò a tal punto da fuggire di casa, a 18 anni, per raggiungere a piedi Darjeeling, la cittadina indiana, che nemmeno sapeva quanto fosse lontana, dove gli inglesi organizzavano le spedizioni ed assoldavano gli sherpa. Per anni i genitori lo credettero morto. Nel'35, a ventuno anni, riuscì a far parte, per la prima volta, di una spedizione all'Everest. Ma solo nel '53, dopo essersi conquistato sulle montagne il prestigioso titolo di "Tigre delle nevi", fu prescelto per il tentativo di scalare la vetta in coppia con Hillary. Gli altri sherpa non compresero perché ci tenesse tanto: "È assurdo pensare che un portatore possa conquistare l'Everest. Finirai per ucciderti e, se invece ci riuscirai, noi resteremo senza lavoro". Temevano infatti che, conquistato l'Everest, non ci sarebbero più state spedizioni.
Ma Tenzing conosceva meglio di loro i chilina-nga: "Se l'Everest verrà conquistato - profetizzò -, l'Himalaya diventerà famoso in tutto il mondo. Ci saranno altre spedizioni, ci sarà più lavoro che mai".
Il fatto di sentirci oggetto di quella profezia ci riempie d'orgoglio, ma più che mai quassù proviamo riconoscenza verso le guide sherpa ed i portatori che ci hanno accompagnati e che, in disparte, ci stanno osservando divertiti. "Quanto manca al Campo Base dell'Everest?" avevamo voluto stampare, quasi per scaramanzia, sulla maglietta azzurra della spedizione.
Ma non sapevamo che la risposta degli sherpa ai trekker che risalgono la valle del Khumbu sarebbe stata: "Calcolato in tempo sherpa o in tempo occidentale?" La loro forza fisica ci ha stupiti dal primo giorno: 40-50 chili ciascuno sulle spalle, tende, tavoli e sedie, cibo, pentole, le nostre pesanti sacche. Ma piano piano, ci hanno mostrato soprattutto la loro forza morale, la laboriosità instancabile, la fedele dedizione al compito assunto di accompagnarci, ma anche la loro semplice, ma profonda religiosità.
In un momento di confidenza ci hanno comunicato di aver pregato assieme, buddisti ed induisti, per la buona riuscita del nostro trekking. "Gli sherpa del maestoso Himalaya sono persone straordinarie - ha scritto Hillary -. Sorprendentemente forti e robusti, in grado di svolgere un lavoro incredibilmente efficace ad alta quota (") buddhisti devoti, con salde e radicate credenze culturali (") mi colpì il loro eccezionale senso dell'umorismo, il forte spirito comunitario, con il loro carattere gioviale e gradevole si rivelarono eccellenti compagni di spedizione".
Ammirato e riconoscente, dal '53 Hillary non hai mai smesso di spendere energie e proventi per permettere agli sherpa di continuare a vivere nel severo ambiente del Khumbu: ha fatto costruire ponti sospesi, un'ospedale, un ambulatorio odontoiatrico, due piste d'atterraggio, una scuola primaria ed una secondaria a Khumjung, la cui prima campanella fu una bombola vuota d'ossigeno. Da quelle aule sono usciti ragazzi come Ang Zangbu, oggi pilota di Boeing, o Lhakpa Norbu, laureato a Seattle. "Se si offre loro una opportunità - ha testimoniato Hillary -, c'è ben poco che gli sherpa non riescano a fare. Il piccolo popolo delle zone selvagge e remote dell'Himalaya si è dimostrato capace di affrontare non solo le quote più estreme, il regno dell'aria rarefatta, ma anche molte delle sfide del mondo occidentale".
Prima di salire quassù, avevamo sostato, in rispettoso silenzio, nella spianata, a 4.800 metri, che ricorda gli sherpa caduti sull'Everest: la prima neve, caduta nei giorni scorsi, copriva in parte i semplici cumuli di pietre che ricordano ognuno dei 46 sherpa che vi hanno perso la vita. Ciascuno evoca una storia, una spedizione, una disgrazia, anche se molti dei loro nomi sono sconosciuti al grande popolo degli alpinisti: come Pasang Lhamu, l'unica donna sherpa vittima dell'Everest, dopo averlo conquistato nel '93; o come Babu Chiri Tshering, padre di sei bambine, precipitato in un crepaccio nel 2001, all'undicesima ascensione alla vetta, primo a scalarla due volte consecutive, a 15 giorni di distanza, dopo essere stato l'unico uomo capace di rimanere 21 ore in una tenda sulla sua sommità, dopo aver compiuto la scalata dal Campo Base alla vetta in meno di 17 ore; o come Galay Sherpa, che scelse di restare fino alla morte accanto a Willy Merkl, capospedizione tedesco nel '34, tremendamente sofferente, piuttosto che lasciarlo solo sulla montagna.
Mescolati tra loro sono ricordati alcuni alpinisti occidentali, primo fra tutti Scott Fisher, sfortunato protagonista del libro Aria sottile, capostipite delle tante vittime della sconsi- derata avventura rappresentata dalle spedizioni commerciali all'Everest. Gli sherpa che ci accompagnano si considerano fortunati di potersi guadagnare da vivere senza rischiare la vita.
"Ho scalato l'Everest perché non lo dovessi fare tu" tentò di spiegare, severo, Tenzing Norgay al proprio figlio, respingendo con forza la sua intenzione di emularlo, ma invano. Da ragazzo il piccolo Jamling aveva sentito raccontare decine e decine di volte l'impresa di suo padre, ed ogni volta cresceva sempre più in lui il desiderio di eguagliarlo.
Certamente il fardello del cognome Tenzing non gli fu mai leggero, né lo fu accettare un padre sempre assente che girava il mondo.
"Ma c'era qualcos'altro a trascinarmi - scrive nella sua biografia -. Dovevo capire cosa aveva spinto mio padre e che cosa poi lui avesse trovato sulla montagna. Solo allora sarei stato capace di recuperare ogni frammento della sua vita, quei frammenti sui quali da ragazzino amavo fantasticare". In realtà trovò, scalando con successo l'Everest nel '96, una dimensione più intima di sé stesso ed il senso del divino che aveva mosso suo padre e che lui aveva perso da tempo.
E noi? Negli undici giorni che abbiamo camminato nella valle del Khumbu, per lunghe ore al giorno, in un saliscendi infinito, più volte ci siamo chiesti cosa ha spinto e spinge tanta gente a desiderare, più d'ogni altra cosa al mondo, di salire quella vetta o raggiungere almeno Khala Pattar. Semplicemente "perché è là" rispose Mallory. Banale, ma forse illuminante.
O forse non c'è nulla di meglio per sintetizzare quell'irrequieta ricerca del "vano" e, al tempo stesso, del "tutto" che spinge uomini e donne, ed ha spinto noi, a sfidare ghiacci, rocce, altitudine, se stessi.
Hotel 1000 stelle
Natura amica
Hotel 1000 stelle
di Donato Chiampi
Una notte a tremila metri contemplando il firmamento.
Agosto, siamo ospiti da un amico in Val Badia. Mariangelo: "Buona giornata (pausa).
Dove andate?".
Domenico: "Oggi niente scalate, nel pomeriggio saliamo al Sass d'la Crusc, dormiamo lassù, all'aperto".
Mariangelo: "Aaaaah (pausa). Andate all'Hotel 1000 stelle!".
Qualunque sia l'estrazione, gli ascendenti diretti o laterali, sotto sotto, piacciono a tutti le esperienze un po' snob. Alcuni fortunati già si accontentano di avere un'erre che nasce dal profondo della gola. Se ci capita di alloggiare in un hotel a 5 stelle, con distacco e qualche critica lo diciamo a chicchessia.
Il fatto che con Daniele e Domenico abbiamo dormito ad un "1000 stelle" vale un articolo.
L'appuntamento con Daniele è alle 18; perciò, nel pomeriggio, decidiamo di passare a salutare due sorelle, nostre carissime amiche. Le abbiamo trovate nel prato davanti alla ciasa. Che sorpresa trovare Maria con le scarpe con i tacchi! Come passa il tempo" ha però conservato il suo bel visetto tondo.
Alle 18 siamo da Daniele.
Guardiamo il cielo, limpido: "Andiamo!".
Daniele è reduce da un ottimo piazzamento in una gara di Ironman in Carinzia.
Per capirsi: tre gare (Triathlon) da disputarsi una di seguito all'altra. Tre chilometri e ottocento metri a nuoto in un lago, 180 chilometri in bicicletta ed una maratona, 42 chilometri e 195 metri. Tutto d'un fiato. Niente male. Del buon Daniele, a questo punto, dire che è allenato è minimizzare. Ci siamo così divorati la salita in un paio d'ore. Tralasciamo i nostri dati sul battito cardiaco e la respirazione.
Giunti in cima ci accoglie un camoscio che, per nulla intimorito, condividerà la "stanza" con noi. Daniele con premura allerta Domenico che nella notte gli avrebbe potuto brucare barba e baffi.
Cena degna dell'hotel.
Un salto sull'ampio terrazzo da dove vediamo accendersi le luci in fondo valle. "Poverini, laggiù così ammucchiati!
" commentiamo.
Il sacco a pelo viene steso tra densi pulvini di silene, varie specie di saxifraghe, genzianelle, campanelle, stelle alpine" erbetta. Naturalmente niente a che vedere con la moquette artificiale degli hotel a 5 stelle. Mentre iniziano ad accendersi le 1000 stelle, a turno ci scappa: "Che silenzio!
". Ma nel dirlo già ci pentiamo. C'è pure qualche stella cadente, saranno le prove generali per la notte di San Lorenzo? Vediamo dei lampi in lontananza, e se piove?
Silenzio. Non lo diciamo con la voce.
Ad un tratto mi viene in mente il mio amico Pasquale che proprio qualche mese fa mi ha raccontato che da giovane andò con i partigiani e, dovendo fare la guardia di notte, osservando il cielo, iniziò a recitare il rosario. Lo capisco.
Mi appisolo, ma all'improvviso spalanco gli occhi, e mi ritrovo in un prato a 2700 metri, avvolto da un'infinità di stelle e due amici vicino, forse svegli pure loro, che sento respirare in un silenzio reale e magico.
Vediamo sorgere il sole (Galileo, continua a perdonarci) e con profonda gratitudine per l'Albergatore ci alziamo.
La colazione "all'altezza" dell'hotel: una barretta condivisa più alcuni biscotti più acqua e limone. Decidiamo di sgranchirci le gambe salendo al Piza dales Diesc, m 3023. Incontriamo subito delle giarines de munt, così le classifica Daniele in ladino. Galline di montagna: mai viste, è strano, dopo anni in Dolomiti. Probabilmente, grazie al caos dei turisti, di giorno non si lasciano vedere. Dopo qualche indagine, nei giorni successivi, ho realizzato che forse erano pernici nel piumaggio estivo.
Nel tragitto verso il Piza dales Diesc, ripensando alla notte, ritrovando l'amico camoscio, sentendo gli uccellini che riprendevano a cantare, mi è passato veloce un pensiero: l'uomo si distingue da tutto ciò che lo circonda perché ha coscienza di sé, fin da bambino accresce questa coscienza con dei "perché?" e si scervella per rispondere.
I sassi, i prati, le galline di montagna vivono la loro esistenza semplicemente in quanto "sono". Riflessi di Colui che si è presentato a noi come "Io sono"?
Si possono aprire gli occhi in una notte di stelle.
Dove il buio è buio e l'alba è alba
Compagni di cordata
Dove il buio è buio e l'alba è l'alba
di Donato Chiampi
Quando la scalata diventa un'intensa esperienza spirituale.
Sicuramente le grandi avventure mozzafiato, i resoconti meravigliosi dei grandi miti dell'alpinismo, i nuovi ironman che raccontano (sponsorizzati) in diretta su Internet le emozioni o tragedie dagli 8000 himalayani, non si avvicinano per nulla alle nostre modeste, semplici, normali scalate in montagna. Perciò molto più difficili da raccontare. Per noi sono momenti speciali, intensi. Ci si lega, e non solo con la corda, si vive un'esperienza che non è esercizio fisico, esibizione o sfida. Certo, sicuramente c'è anche un po' di queste cose, ma molto,molto di più.
Senza prenderci troppo sul serio possiamo chiamarla "esperienza spirituale con intenso uso dei sensi".
Lagazuoi, Alta Val Badia, "via del tetto". "Hai visto quei due? Ognuno ha una minuscola ricetrasmittente sullo spallaccio dello zaino!".
Girando di poco la testa i due si parlano. Sono americani e parlottano in quella lingua che per anni studiamo a scuola e che poi quando dobbiamo usarla, non-sappiamo-come- si-dice.
Noi due, che siamo all'antica, facciamo così: lui dalla sosta urla: "Dammi cordaaaa", io dall'altra sosta, 50 metri più in basso: "Recupera cordaaa". Che poi è la stessa cosa, ma in tanti casi non ci sentiamo!
All'antica. Ad un certo punto mi sporgo da un grosso masso a sinistra, invece che a destra. Miracolo della propagazione sonora: mi sente perfettamente.
Tecnica, tecnica, oltre che atrofizzarci l'iniziativa ci togli tutti i gusti.
Un bell'urlo "Cordaaaa", un bel freddo, un bel caldo, una bella stancata… altro che l'ascensore per "scendere due piani"! Bene.Andare in montagna comporta anche questo, riprendersi un po' di quel che di umano molte volte la modernità ci ha tolto: la sofferenza e la gioia.
Avevamo dormito nel bivacco Rainetto, nel massiccio del Monte Bianco, dormito?! Come si dorme in un bivacco. Ci siamo alzati che era ancora buio e, dopo una succulenta colazione, con la mal nascosta eccitazione di ogni partenza, siamo usciti. Abbiamo subito acceso le lampade frontali perché il buio in certi posti è "buio" e, calzati i ramponi, siamo partiti.
Giunti al luogo dove avremmo dovuto calarci, per risalire su un altro ghiacciaio, abbiamo iniziato a cercare il punto migliore. I nostri due fasci di luce illuminano debolmente pochi metri, è un misto di ghiaccio, neve e rocce.
"Non continuiamo". "Va bene". In questi posti non si tengono lunghe conferenze. Abbiamo raggiunto la vicina cima della montagna su cui eravamo ed abbiamo atteso l'alba ormai prossima. A quell'altitudine l'alba è "l'alba". Maestosa, imponente. Prima si illuminano le cime più alte, e poi giù, fino in fondo, le valli. Nella magnificenza, tipica della natura, i colori si susseguono, si rincorrono, si fondono tra loro, finendo l'ouverture in un'esplosione di luce.Nei pochi millimetri delle mie pupille entra uno spettacolo che spazia per centinaia di chilometri e, (ma come fa?), entra identico anche nelle pupille del mio compagno.
Impressionando sulla pellicola fotografica i mutamenti della scena che si evolve velocemente, vediamo in lontananza il Cervino. Il cielo è tutto sereno, solo sul Cervino c'è una nuvola nera. Esplode la tempesta con lampi e fulmini, un piccolo finimondo in mezzo ad un mare di quiete.
Finito il meraviglioso show torniamo giù. Certo, l'alba è stata bella, ma non è questa l'esperienza più vera di quel giorno. Aver rinunciato insieme, riconosciuto apertamente che ci siamo fermati, cambiato il programma, studiato e sognato.
La via è tutta su roccia, dolomia, un incanto. Come sempre, arrampichiamo alternandoci nel salire da primo di cordata. A metà parete, appena partito da una sosta dentro una nicchia, una novità piomba inaspettata: "E se non riesco?". Non era mai successo. Le dita con cui mi tengo, le gambe, tutto il corpo chiede, anche se la domanda parte chiaramente dalla mente. D'accordo, mi ero allenato poco, ma non è questo il pensiero principale. Intanto il mio compagno è lì, a pochi metri, facendomi sicurezza con la corda, gli occhi e brevi parole. E aspetta. Quei brevi attimi creano un'infinità di collegamenti elettrici nel cervello, e poi ricordi infantili, archetipi che si materializzano, adrenalina.
Riparto. Altro che scalata! Un contatto affettuoso con la roccia, un abbraccio confidente alla montagna, quasi una danza in verticale. Alla sosta, quando mi raggiunge, penso di aver detto al mio compagno: "Ho avuto paura, poi ho scalato splendidamente ", e lui: "Ho visto". Forse ho rappresentato, con l'aiuto della natura, quel che accade anche quando la parete non è di roccia. Indispensabile ricordarsi di non essere soli.
E diciamolo: ma quando mai ci fidiamo completamente di un'altra persona? a tal punto da mettere la propria vita nelle sue mani? C'è un'esperienza particolare, che poi provano tantissime persone, ed è quella di legarsi in cordata. Fino a quando non si prova è impensabile capirla a fondo.
La corda, lunga circa 60 metri, unisce due o più scalatori. Si lega in vita ad una cintura con cosciali detta "imbracatura" ed è, da quando è nato l'alpinismo, il mezzo per non precipitare in caso di caduta. Si utilizza su qualsiasi terreno: su ghiacciaio, parete di roccia, arrampicando su cascate di ghiaccio, su una breve falesia in riva al mare. Quando salgo il mio compagno mi assicura, lo assicuro io quando sale lui.
Mi sta seguendo con lo sguardo?
"Mi da troppa corda? O troppo poca?
È concentrato? La manovra che sta facendo con l'attrezzatura è giusta?
Ora non lo vedo, e dopo lui non vedrà me, troppi metri ci dividono prima di riunirci.
Me lo chiedo sempre quando arrampico: nella vita quotidiana riesco a immedesimarmi completamente nell'altro? E l'altro? Lo rassicuro a tal punto che si fida e si mette nelle mie mani? Naturalmente per situazioni importanti, non per bazzecole. Riesco a sentirmi così legato da essere completamente preso da ciò che l'altro vive? Attenderlo, sostenerlo, seguire la sua andatura, avvertirlo, consigliarlo, rifocillarlo, complimentarmi con lui.
Quante cose insegna una semplice corda legata in vita!
Incontri provvidenziali. Quante persone abbiamo incontrato su ghiacciai, pareti, rifugi o bivacchi?
Tante, in molti casi personaggi. Raccontiamo di qualcuno.
La sera prima avevamo raggiunto il rifugio ed ora, con gioia e soddisfazione, saliamo il nostro secondo 4000. Appena partiti accendiamo le lampade frontali per non finire in un crepaccio, dicono che non è divertente.
La luna è piena, enorme, e il ghiacciaio riflette la sua luce. Spegniamo le nostre due misere lampade e procediamo con la luce naturale della notte.
Il sole è alto mentre stiamo per raggiungere la cima Gnifetti sul Monte Rosa, quando incrociamo un uomo. Lo ricordiamo ancora bene, con la barba, giacca a vento marrone, lo zaino, le stampelle… una gamba sola! Ma come è arrivato quassù? Ci salutiamo. E noi ci ridimensioniamo, la nostra fatica e conquista si inchina di fronte al personaggio con due punte d'acciaio sulle stampelle, per avanzare su un ghiacciaio.
Al ritorno incontriamo una cordata, ci salutano in tedesco alcuni giovani.
Per ultimo ci saluta un uomo che non avevamo notato subito: piccolo, anche perché curvo, grandi baffi, capelli candidi come la neve attorno a noi. Ha un abbigliamento ed una attrezzatura da far morire d'invidia qualunque direttore di un Museo della Montagna, ed un sorriso sereno, bello, rivolto a noi. Caro nonno, ci hai proprio conquistati!
Altri due personaggi ricordiamo volentieri.
Stiamo scalando sullo spigolo del Pollice, alle Cinque Dita, Sassolungo.
Davanti a noi ci sono altre cordate, vanno spedite perché hanno una guida alpina che ripete i movimenti - quasi - ad occhi chiusi. Siamo già alti quando raggiungiamo una cordata di due persone, non hanno la guida... Ehi, sono due signore! Generosamente le stimiamo sulla sessantina. Di solito si incontrano più facilmente nel foyer di un teatro (sono leggermente truccate), e invece sono lì: decise, sicure, contente dello spigolo aereo che regala loro un panorama fantastico.
Le due signore non immaginano quanto ci hanno trasmesso. Solamente il giorno prima avevamo immaginato quali gite in fondo valle avremmo potuto fare una volta superata la sessantina… Attraversiamo il ghiacciaio e arriviamo, emozionati, ai piedi della Pyramide de Tacul. Un pilastrone di granito che pare una piramide. Ci sganciamo i ramponi, posiamo le piccozze, togliamo gli scarponi per infilarci le scarpette da arrampicata. Stiamo per iniziare la scalata in un bel sole d'agosto quando il compagno mi dice: "Gira gli scarponi, con la suola in alto". Quale rito arcano si nasconde nel voltare gli scarponi?
Iniziamo la scalata. Abbiamo già fatto almeno otto lunghezze di corda quando inizia a nevicare! Nel massiccio del Bianco succede, anche in agosto.
Iniziamo così a calarci con le corde doppie. Senza intoppi raggiungiamo la base della parete. Tolgo le scarpette e prendo i miei scarponi, li giro e li infilo: asciutti!
Ora è chiaro che non si può indicare o riconoscere in questi brevi racconti qual è lui e quale sono io.
È proprio lo stesso.
Prima uomo, poi alpinista
Le sfide di uno scalatore
Prima uomo, poi alpinista
di Domenico Salmaso
«I veri Everest sono qui, nella vita di tutti i giorni» Intervista a Simone Moro, uno spirito che è connubio tra cuore e testa.
Incontrare un alpinista del calibro di Simone Moro, per uno appassionato di montagna come me, non poteva che risultare estremamente emozionante. Pensavo infatti che mi sarei trovato di fronte ad un colosso himalayano difficile da scalfire. Subito invece, da come ci hanno presentati, mi sono trovato a mio agio con una persona di una semplicità e disponibilità uniche. Si aveva la sensazione che il cuore si spalancasse di fronte all’immenso del suo vivere. Dialogando, a poco a poco mi sentivo catapultato nel suo mondo fantastico dell’alta quota, dove roccia e ghiaccio la fanno da padroni, e che solo con un atteggiamento nobile come il suo ci si può permettere di avvicinare.
Nonostante momenti duri e drammatici vissuti con altri compagni in questi ambienti severi, Simone continua nella sua avventura di esplorazione.
Il primo aprile 2006 partirà per l’Himalaya per tentare una nuova via in solitaria, dove ancora una volta si misurerà con i suoi limiti. Si tratta della sua terza spedizione sul “Lhotse”, che con i suoi 8516 metri è la quarta montagna più alta della Terra, superata solo dall’Everest (8848 m), dal K2 (8611m.) e dal Kangchenjunga (8598 m).
Simone, hai detto: «Ho “peccato” scalando anche lungo le vie normali, ma ho capito da tempo che l’alpinismo vero viaggia con altri approcci fisici e mentali verso l’avventura verticale». Prova a spiegarci quali sono per te le dimensioni più vere dell’alpinismo.
«Le dimensioni vere dell’alpinismo sono quelle che hanno una componente esplorativa. Se io percorro una via già aperta da qualcuno o già ripetuta da più persone, sicuramente in quel percorso non c’è esplorazione ma una clonazione di un percorso. Diciamo che nella mia fase formativa ho imparato ad accorgermi dei miei errori, rendendomi conto che mi trovavo “in fila” nel modo di pensare e di fare alpinismo e ho capito che non era quanto cercavo. Cercavo, infatti, lungo un itinerario esplorativo una parte di me che conoscevo e un’altra parte che non conoscevo. Allora basta con le vie normali, basta con le vie dei primi salitori: voglio fare una via mia, dove poter trovare con la mia fantasia e la mia capacità le linee ipotetiche per scalare una montagna. È in questo senso che intendo l’esplorazione».
Nel 2004 hai vinto due pareti nord estreme in stile alpinistico: la nord del Baruntse e la nord dell’Annapurna: prova a spiegarci il valore particolare che hanno per te queste pareti così difficili.
«Sono molto diverse: una cosa è un 8000 Annapurna e un’altra è un 7000 il Baruntze. Pur essendo un 7000, l’ho voluto tentare particolarmente in quell’anno. È una montagna che sta esattamente di fronte all’Everest e al Lhotse, che sono le vette più conosciute e viste. Ed è curioso come tutti gli alpinisti, e anch’io, ci siamo innamorati della montagna più alta. È come la donna più bella: tutti se ne innamorano. E in questo caso ciò accade della parete più bella e più appariscente. Ce ne sono altre invece più piccole e meno belle dove però si possono trovare delle linee fantastiche di salita: una di queste è il Baruntze ancora vergine, che si è rivelato molto più difficile e interessante dell’E-ve-rest».
Shisha Pagma in invernale a gennaio 2005: un’altra sfida vinta. Quali sono le difficoltà e le soddisfazioni offerte dall’alpinismo invernale sugli ottomila?
«Innanzitutto bisogna dire che l’alpinismo invernale sugli 8000 rappresentava fino al 14 gennaio 2005 un’esclusiva dell’alpinismo polacco. Non c’è mai stato nessun alpinista, che non fosse un polacco, in grado di scalare una montagna di 8000 metri d’inverno. Neppure i grandi come Reinhold Messner, Kurt Diemberger, Walter Bonatti. Adesso c’è un bergamasco che, insieme con il compagno polacco Piotr Morawski, ha raggiunto sull’Himalaya in inverno la vetta del Shisha Pangma (8027 m).
«Le difficoltà dell’alpinismo invernale stanno nelle condizioni ambientali decisamente rigide. Se descrivo quel momento quando mi trovavo in cima c’erano 52 gradi sotto zero e 120 chilometri orari di vento. Quindi è un alpinismo dove la “soprav-vivenza” rappresenta una componen-te molto forte».
«È più facile perdere che trovare un amico in alta quota». Nell’im-maginario collettivo gli alpinisti degli ottomila sono descritti come personaggi solitari: che valore ha per te condividere con altri un avventura alpinistica?
«Devo sempre ricorrere a un paragone. È come l’amore: quando sei innamorato di qualcuno, hai voglia di gridarlo a tutti. Lo vuoi gridare a lei, lo vuoi gridare al mondo. E così è anche con l’alpinismo. Un alpinismo fatto sempre e solo in solitaria, secondo me, è un alpinismo che si priva di una componente che è quella delle gioie e della condivisione. È vero, d’altra parte, che ti mette ancora di più sul piedistallo, tanto è che ad aprile parto per fare una scalata in solitaria.
«L’alpinismo solitario è bello ed è il top del top, però, come dicevo, manca di quelle condivisioni; ecco perché a me Simone, non essendo un solitario ma una persona abbastanza solare, è sempre piaciuto condividere queste esperienze con qualcuno. Ciò non significa che sia andato sempre con spedizioni composte da tante persone. Di solito i miei compagni sono uno o due, massimo tre. Mi sembra una sfida più leale verso la montagna. A me gli assalti di gruppo non piacciono».
Sei diventato famoso per avere rinunciato alla cima del Lhotse per salvare un altro alpinista: che valore dai a quel gesto?
«È più facile essere dei bravi alpinisti che non essere bravi uomini. È la differenza tra maschio e uomo; essere maschio è una caratteristica del tuo sesso, essere uomo è un valore aggiunto. Si diventa uomini attraverso quelle che si chiamano tappe della saggezza, e per passare queste tappe in maniera naturale, senza montarti la testa, devi compiere un percorso educativo. Io ho avuto un papà e una mamma che mi hanno insegnato quali sono i valori della vita. Mi piace pensare che un alpinista ragioni sempre usando il suo senso civico e non solo le proprie ambizioni. Bisogna sempre fare un connubio tra il cuore e la testa. Talora i grandi alpinisti sono diventati tali, pur non avendo saputo essere grandi uomini. Perché i veri Everest sono qui, nella vita di tutti i giorni.
«L’Everest fisico è più facile da superare, è soltanto una montagna. Ce la faccio o non ce la faccio… Nella vita di tutti i giorni i problemi non sono “o ce la faccio o non ce la faccio”. Sono ancora più vincolanti. In quel momento sul Lhotse mi sono comportato come penso anche altri si sarebbero comportati».
BOX
Simone Moro è nato nel 1967. Guida alpina, atleta e istruttore federale, arrampica dall’età di 13 anni e oggi pratica tale attività a tempo pieno, realizzando spedizioni alpinistiche sulle grandi montagne della Terra: Himalaya, Karakorum, Ande, Patagonia, Antartide, Thien Shan, Pamir.
Il primo vero grande successo lo ha ottenuto con la salita al Lhotse (8516 m) nel 1994 in sole 13 ore effettive (17 totali), partendo da 6300 m di quota. Le più recenti realizzazioni alpinistiche sono le salite alle quattro montagne di oltre 7000 m della Russia in soli 33 giorni (record).
Nel 1996 ha conquistato il Fitz Roy (3441m) nella parete ovest lungo l’itinerario integrale della “Supercanaleta”. Nello stesso anno sale senza ossigeno gli 8008 m dello Shisha Pangma Sud.
Le ultime più eclatanti salite sono state la doppia salita all’Everest nel 2000 e nel 2002, la salita al Cho Oyu (8201 m) e il raggiungimento della cima del Vinson (4895 m) in Antartide, sempre nel 2002. Il 2003 è iniziato con la salita al Kilimangiaro (5895 m) ed il conseguimento di importanti riconoscimenti come il Fairplay Pierre de Cubertin tropy a Parigi dall’Unesco e le medaglie d’oro al valor civile dal presidente della Repubblica Ciampi e dalla regione Lombardia. Simone ha anche conseguito il prestigioso David Sowles Award dall’American Alpine Club. Tutti questi riconoscimenti di valore mondiale sono stati ricevuti per il salvataggio estremo che Simone Moro ha operato da solo, senza ossigeno e a rischio della sua stessa vita, per cercare e trarre in salvo l’alpinista inglese infortunato Tom Moores.
Benvenuti!!!
Ciao a tutti!
L’idea di questo blog è nata per tenere uniti tutti coloro che hanno iniziato a partecipare alle escursioni in montagna organizzate da Domenico, detto Dono.
Domenico è un appassionato di montagna, uno scalatore, ma è anche una persona che prima di tutto ha scelto di condividere questa passione con altri .
L’idea di organizzare delle escursioni, adatte alla maggior parte degli appassionati, è nata con l’intento di conoscere persone e di portare avanti insieme un’esperienza che tenga conto dell’attenzione degli uni verso gli altri e quindi, di riflesso, verso la natura.
Ci sono alcune regole:
• le escursioni sono aperte a tutti;
• ciascuno sia disponibile a conoscere e farsi conoscere;
• fare in modo che tutti si trovino a loro agio e siano contenti;
• rispettare i tempi e le esigenze di ogni partecipante;
• trascorrere una giornata a contatto con la natura;
Poche altre regole, unite al grande desiderio di offrire, a chi lo desidera, la scoperta in maniera graduale dell’ambiente montano.
Si è iniziato quest’anno, quasi per gioco, con quattro escursioni fatte; la cronaca delle ultime potete leggerla su questo blog.
In programma ce ne sono altre: il calendario sarà comunicato in tempo sul blog.
Per il prossimo anno, si spera di riuscire a stilare un calendario che, da gennaio, indichi le date e i luoghi di ogni mese.
Le escursioni sono aperte a tutti quelli che desiderano stare in compagnia, che amano la montagna e sono aperti alla conoscenza ed al dialogo sulle cose che sono veramente importanti, e non solo.
Questo blog nasce anche come punto di riferimento di confronto e di contatto per tutti quelli che lo desiderano, sia per la montagna che per tanti altri argomenti che man mano verranno proposti.
Vi aspettiamo!
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